Anno di San Giuseppe

Una vita tra lavoro, famiglia e comunità

È esperienza non infrequente tra i diaconi permanenti, soprattutto durante il periodo della formazione e dei primi anni di ministero, cadere nella tentazione di considerare il proprio lavoro o la propria professione come un impedimento o un ostacolo ad una dedizione totale al servizio alla sequela di Cristo. Accade più spesso tra coloro che, come me, svolgono un lavoro nel quale è difficile scorgere a prima vista una dimensione di servizio al prossimo: sono da 21 anni impiegato presso una compagnia assicurativa; mi occupo nello specifico di risarcimenti, un’attività che mi ha consentito di mettere a frutto i miei studi di giurisprudenza e che spesso mi pone a contatto indiretto con la sofferenza e il dolore delle persone che devono essere tradotti in corrispettivo economico. Più volte durante il cammino di formazione al diaconato permanente mi sono interrogato sul rapporto lavoro-ministero e sono stati in parte il cammino di formazione e, soprattutto, l’esperienza del ministero a farmi comprendere come il lavoro -qualunque lavoro- sia parte integrante e fondamentale del ministero diaconale. È un percorso lento, fatto di piccole tappe e di grandi (ri)scoperte, che posso riassumere nella “rivoluzione copernicana” del passaggio dallo sforzo titanico e insensato di conciliare il lavoro con il ministero alla disposizione d’animo e mentale di lasciar illuminare il lavoro dal ministero. Si riscopre così che il lavoro è fatto di molte dimensioni: alcune che diamo per scontate e per ciò non riusciamo ad apprezzare, come la relazione con i colleghi e con tutti coloro con cui vieni a contatto grazie al tuo lavoro e in questo ambito, come cristiani, possiamo fare molto; altre che abbiamo dimenticato o non abbiamo mai veramente considerato. Soprattutto queste sono preziose perché ci offrono un osservatorio privilegiato sulla realtà e sulla società e ci consentono di orientare il nostro servizio ai fratelli aiutandoci a capire ciò che genera o alimenta sofferenza e ciò che può dare gioia o serenità. Papa Francesco parla spesso e volentieri del lavoro: ci ha ricordato che ”il lavoro non è che la continuazione del lavoro di Dio: il lavoro umano è la vocazione dell’uomo ricevuta da Dio alla fine della creazione; l’uomo è creatore e crea con il lavoro” [1] e che “non dobbiamo mai essere schiavi del lavoro, ma signori” [2]. Sono solo due tra molti spunti, ma sono quelli che la situazione di pandemia in cui ci troviamo immersi e che tanto ha impattato sul mondo del lavoro ha posto in risalto con maggior evidenza: per quanti il lavoro può dirsi vocazione e non solo strumento indispensabile per la sopravvivenza propria e della propria famiglia? Quanti possono dire di avere consapevolezza di compartecipare con il proprio lavoro alla Creazione? Sotto quest’ultimo punto di vista l’iper-settorializzazione in cui sono organizzate oggi molte attività (la mia stessa professione ha conosciuto nel corso degli anni un accentuato processo di settorializzazione e specializzazione) impedisce a molti lavoratori di cogliere e apprezzare il proprio contribuito nel processo produttivo e contemporaneamente fa scadere la considerazione del proprio lavoro ad attività non indispensabile e facilmente sostituibile. La pandemia ha portato ad emersione questi “lati scuri” del lavoro, ma ha tolto dall’ombra anche altri aspetti: abbiamo tutti scoperto la indispensabilità di lavori che non consideravamo essenziali per la nostra vita quotidiana (si pensi a tutte le mansioni impiegate nei supermercati, ai trasportatori, ai corrieri, ai rider…) e questo ci ha ricordato che ogni lavoro in quanto tale ha dignità in sé in quanto ci consente di “”fare” il pane e portarlo a casa” [3]; per altri il doversi fermare è stata l’occasione per comprendere se il lavoro nella propria vita è vissuto come vocazione o piuttosto come “idolo”. L’esperienza dello smart working che per molti, come me, è diventata da febbraio 2020 la modalità esclusiva di lavoro, tra le pur molte difficoltà e limitazioni, soprattutto legate al venir meno delle relazioni “in presenza” con colleghi e collaboratori, ci ha consentito di meglio armonizzare vita lavorativa e vita famigliare e di sperimentare che la nostra umanità si scopre più ricca se accetta di essere sé stessa a prescindere dai contesti in cui si trova. L’evidenza di quest’ultimo aspetto è stato un ulteriore tassello nella costruzione del difficile equilibrio tra lavoro, famiglia, ministero diaconale: spesso come diacono mi sento porre la domanda: “ma come riesci a conciliare moglie, tre figli, lavoro e diaconato?”. Sempre più mi vado convincendo che non siamo chiamati a circoscrivere tempi e spazi da dedicare a lavoro e famiglia perché sia lasciato spazio al diaconato, ma che il diaconato si espande in famiglia e nel lavoro nello stesso modo in cui si espande nella comunità e trova nella famiglia e nel lavoro fonte e destinazione delle nostre attenzioni spirituali. E questo vale per ogni battezzato, chiamato a spendere la propria vita tra famiglia, lavoro e comunità.

diacono Daniele G. Pace

La Fiaccola – Maggio 2021

 

 

[1] Papa Francesco – Omelia “Il lavoro è la vocazione dell’uomo” 1° maggio 2020

[2] Papa Francesco – Udienza generale 12 agosto 2015

[3] Papa Francesco – Omelia “Il lavoro è la vocazione dell’uomo” 1° maggio 2020