l diaconi e i poveri nelle periferie

Vi proponiamo una riflessione del diacono Roberto Bernasconi della Diocesi di Como, pubblicato sulla rivista Il Diaconato in Italia.

Premessa: marito, papà, suocero e nonno, sono diacono permanente da 22 anni e da 13, proprio quando stavo per andare in pensione dopo aver lavorato per 40 anni in una fabbrica di valigie, ho ricevuto dal Vescovo l’incarico di direttore della Caritas diocesana. Vivo a Como, città di confine e cuore di una Diocesi che si estende su un territorio molto ampio e variegato, caratterizzato da sempre da uno straordinario passaggio di persone, da nord a sud e da sud a nord, da ovest a est e da est a ovest! Devo ammettere che non mi è stato facile riflettere sulla spiritualità in questo tempo così segnato dall’attenzione (soprattutto dei mass media) quasi esclusivamente centrata sul benessere fisico, sulla paura di essere contagiati da un virus, che ha generato incredibili stati d’ansia che hanno poi dato origine a una serie di problemi (cardiaci per esempio, ma anche emotivi e depressivi) che con il virus non avevano niente a che fare. Di fatto, però, per dare attenzione alle duecento e passa persone senza fissa dimora o provate da gravi difficoltà soprattutto economiche, insieme ai miei collaboratori non ho fatto un giorno di clausura forzata… e nessuno di noi, assistiti compresi, è stato contagiato!
Ma veniamo al dunque: quando fu promulgata la Costituzione conciliare Gaudium Et Spes avevo 14 anni e il suo Proemio, grazie anche ai sacerdoti miei educatori, ha fatto da sfondo alla mia crescita umana e spirituale: «Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini le angosce di oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla Vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore. La loro comunità, infatti, è composta da uomini i quali, riuniti insieme nel Cristo, sono guidati dallo Spirito Santo nel loro pellegrinaggio verso il regno del Padre, ed hanno ricevuto un messaggio di salvezza da proporre a tutti. Perciò la comunità dei cristiani si sente realmente e intimamente solidale con il genere umano e con la sua storia».
Ancora mi sostiene sempre nel mio vissuto quotidiano la preghiera del rito della consacrazione che attraverso il Vescovo chiede per il diacono «La pienezza delle virtù, la sincerità nella carità, la premura verso i poveri e i deboli, l’umiltà nel servizio, la rettitudine e la purezza di cuore, la vigilanza e la fedeltà nello spirito». Sempre poi il Magistero ecclesiale ci aiuta a richiamare i valori fondamentali del nostro ministero, in particolare l’ultima Istruzione della Congregazione per il Clero “La conversione pastorale della comunità parrocchiale al servizio della missione evangelizzatrice della Chiesa” ci ricorda alla voce Diaconi quello che Papa Francesco in un suo pronunciamento esprime sul ministero diaconale «Il diaconato è una vocazione specifica, una vocazione familiare che richiama al servizio.., Il diacono è — per così dire — il custode del servizio nella Chiesa… il servizio alla Parola, il servizio all’Altare, il servizio ai Poveri.” (Discorso durante l’incontro con i sacerdoti e i consacrati, Milano, 25 marzo 2017).
Nello stesso documento troviamo anche un richiamo sulle azioni che squalificano il servizio diaconale, il Papa ci dice ancora «Dobbiamo stare attenti a non vedere i diaconi come mezzi preti e mezzi laici… Ci sono due tentazioni. C’è il pericolo del clericalismo: il diacono che è troppo clericale… E l’altra tentazione, il funzionalismo: è un aiuto che ha il prete per questo o per quello» (idem).
Questo ci fa capire che all’interno di una pastorale diocesana non c’è un ufficio particolare che è affidato al diacono attraverso il quale si esprime la pienezza del ministero, ma la ministerialità diaconale è quella del servo che deve essere pronto a cogliere i bisogni della comunità e a mettersi a servizio, a nome della Chiesa, soprattutto nei luoghi e con le persone che la comunità non raggiunge perché faticosi o semplicemente perché considerati non produttivi.
Il ministero che sto vivendo, quello della vicinanza alle persone povere e senza fissa dimora, mi fa interrogare quotidianamente su di me: riesco ad essere una persona che vuole aprire e mantenere un dialogo con tutti quei fratelli e sorelle che vivono la dimensione del disagio? Questo interrogativo è importante, perché il mio ministero diaconale può concretizzarsi solo attraverso la mia umanità; è nella concretezza della quotidianità che posso verificare il compito che mi ha affidato la comunità.
Per me quindi essere ministro della Chiesa vuol dire portare avanti la missione del servizio all’interno della dimensione del mondo, aiutare la mia comunità ad uscire dai suoi schemi e dalle sue strutture per avvicinarsi all’umanità sofferente in punta di piedi, non con la ricetta pronta per risolvere ogni problema e le diverse situazioni, ma con la volontà di ricercare dialogo e amicizia e di costruire un cammino condiviso di responsabilizzazione e di condivisione di vita. Vi assicuro che non è una scelta semplice da vivere, perché vuoi dire mettere in discussione tutte le certezze che il ministero ti abilita a vivere per aiutare la comunità ad essere comunità in uscita. Il nostro è un ministero che per sua natura si vive nella riservatezza, perché chi serve mette a disposizione tutto sé stesso per un progetto che non è proprio, ma che gli è stato affidato, è il progetto di salvezza che Dio mette a disposizione della sua Chiesa a favore di tutta l’umanità.
In una società come la nostra che è società dell’apparenza, della visibilità, questo dono del servizio, che è proprio del ministero diaconale, fatica ad essere capito dalle nostre comunità, ma soprattutto è poco praticato anche da alcuni diaconi che sentono il bisogno di essere visibili
all’interno della vita comunitaria, possibilmente assumendo un ruolo che dia autorevolezza.
Il risultato di questo modo di agire spesso rende i diaconi, loro malgrado, confinati nel presbiterio (in alcune vecchie chiese ci sono ancora le balaustre!), impegnati a seguire la celebrazione eucaristica rivendicando in modo sindacale di poter eseguire i gesti che sono loro propri, oppure si limitano ad organizzare, o a fare supplenza, momenti di preghiera e di catechesi, a volte non rendendosi conto che così facendo si rendono sempre più distanti dal popolo di Dio che vive nel mondo, al servizio del quale sono stati ordinati.
Questa ricerca di spazio e di visibilità all’interno della comunità ci fa confondere il servizio con il potere, il dono gratuito con il servizio retribuito. Diventa allora importante all’interno di una spiritualità comune ritrovare un nostro modo specifico per rapportarsi con Dio. Noi spesso mutuiamo il nostro modo di dialogare con Dio da altri, quindi fluttuiamo da una spiritualità presbiterale a quella laicale oppure a quella di gruppi, movimenti e associazioni. Credo che sia nostro compito vivere una costante ricerca di spiritualità diaconale che ci permetta di costruire tra di noi una unità di intenti, che ci aiuti, pur nella diversità delle nostre esperienze di ministero, a sentirci corpo unico e unito, in costante ricerca di rapporto con il Padre e a disposizione del servizio per la nostra Chiesa. A volte quando parliamo di spiritualità noi intendiamo tutte quelle pratiche di preghiera, quei comportamenti che ci estraniano dal mondo e ci proiettano in quella dimensione sospesa fra cielo e terra, che apparentemente ci rende più ricettivi ad accogliere la Parola di Dio. Il compito del diacono è quello di far sì che questa dimensione sospesa fra cielo e terra diventi il più concreta possibile: non si può ritrovare il cielo se si dimentica che la terra è il luogo in cui ci è dato di vivere, in cui Cristo, che si è fatto uomo come noi, ancora ci si presenta attraverso tanti fratelli e sorelle che vivono la normalità e insieme la complessità della vita (cf. Mt 25,31 -46).
Noi diaconi non solo per il ministero che abbiamo ricevuto, ma anche per le esperienze del nostro vissuto abbiamo in dote la semente per poter sviluppare questa spiritualità e abbiamo la possibilità di viverla pienamente con tutte le esperienze della nostra vita. Essendo preziosa questa semente ha bisogno di buona terra per essere seminata, noi dovremmo essere questa terra concimata da una conversione costante, da umiltà e da purezza di cuore, che ci liberi da egoismi e da traguardi terreni e ci dia la capacità di spenderci per il Regno.
Quindi spiritualità e servizio non possono mai essere disgiunti. E attraverso il servizio che noi possiamo concretizzare la nostra spiritualità verso tutte quelle persone che incontriamo e che attraverso di noi entrano in rapporto con la nostra comunità, che così può trasformarsi da comunità chiusa in se stessa in comunità capace di vicinanza, pronta ad accogliere, a condividere, a far proprie le ricchezze e le fatiche di tante vite che hanno bisogno di essere riconosciute, che hanno bisogno di esprimersi, ma soprattutto comunità che ha capacità di concretizzare e rendere visibile l’amore di Dio per tutta l’umanità.
Provo ora a declinare, attraverso alcuni gesti liturgici propri del diacono, come questa spiritualità si rende visibile e attraverso di lui possa aiutare la comunità a recuperare all’interno delle celebrazioni l’esperienza della vita vissuta. L’accoglienza e l’ascolto sincero del diacono sono visibili a livello liturgico nella celebrazione dell’Eucaristia attraverso i gesti semplici che il diacono svolge e che ai più possono sembrare banali e privi di significato, ma è proprio a partire da questi segni semplici che si sviluppa una spiritualità profonda che aiuta la Chiesa ad essere missionaria.
La Chiesa in questi anni si sta strutturando in modo efficiente, con piani pastorali che codificano a catechesi, la sacramentalità e la dimensione caritativa, piani che pure ci vogliono, ma che non possono sostituire il bisogno di autenticità, di semplicità, di immediatezza di un linguaggio gestuale che aiuti le persone a ritrovare il senso profondo della vita. Sono segni di condivisione e di servizio in un percorso dove tutti dovrebbero sentirsi protagonisti per concorrere a costruire una comunità vera, dove nessuno prevale, ma tutti sono necessari, una comunità che non perde mai di vista che il centro dell’unità è Cristo che si manifesta a noi nella semplicità e nella concretezza del pane e del vino, che sono il frutto del lavoro e del sacrificio di tanti uomini e donne, in particolar modo nel nostro tempo e nella nostra società, di chi è emarginato, di chi è sfruttato, di chi non è considerato.
Ecco allora come sia importante, soprattutto da parte dei diaconi stessi, riscoprire il valore profondo e teologico di alcuni di questi gesti semplici che il diacono compie a nome della comunità e che possono essere capiti e vissuti in modo compiuto dalla comunità stessa solo se sono il frutto di un rapporto vero e concreto con la società in cui viviamo. Il diacono prima di essere ministro dell’altare deve essere ministro che ha la capacità di accogliere le fatiche, i dolori, le aspirazioni delle periferie esistenziali perché diventino il centro della mensa comunitaria. E’ compito del diacono preparare la mensa, che nella vita di ciascuno è il luogo attorno al quale la famiglia si riunisce, spesso la sera, perché capita che ciascuno durante la giornata viva autonomamente i suoi impegni quotidiani, o quando dalla famiglia d’origine nascono altre famiglie nei momenti importanti in cui ci si riunisce per far festa.
Il grande valore di questo gesto sta allora nella capacità di creare un ambiente accogliente in cui ciascuno possa trovarsi a proprio agio. Non dimentichiamo che spesso un’eccessiva sontuosità (sembra di tornare al rococò) è segno di un’attenzione troppo marcata all’esteriorità che non ci aiuta ad arrivare all’incontro profondo e sincero con tutti.
Dovremmo avere abitualmente la capacità di condividere la mensa con ogni persona che incontriamo, in atteggiamento di ascolto soprattutto con quanti vivono la fatica della solitudine. Sulla mensa occorre poi sistemare le pietanze, il pane e il vino, simboli della semplicità e della gioia, che nascono dalla macina di tanti grani di frumento, lievitati e cotti e dalla spremitura di tanti acini d’uva, lasciati poi riposare quanto basta. Spesso vorremmo vedere subito i risultati del nostro impegno, ma ci sono tempi in cui bisogna sapere aspettare.
Una delle attività quotidiane della Caritas nella mia città è proprio la mensa per chi non ha la possibilità di procurarsi il cibo quotidiano o anche per chi vivendo in solitudine cerca una parola di conforto e un gesto di condivisione. Un aspetto molto particolare è che lo chef ha vissuto tanti anni in Francia e, dopo aver attraversato momenti difficili, ha ritrovato con noi il senso profondo della vita proprio nel mettere le sue capacità in un gesto straordinario di solidarietà e a servire in tavola sono molti giovani arrivati in Italia, spesso inseguendo un sogno, che con grande disponibilità si mettono a servizio dei loro simili. Tocca poi al diacono proclamare la Parola del Signore, che non è mai asettica e quindi adattabile in ogni circostanza. La Parola non si adatta, ma si incarna e diventa vita attraverso le nostre vite vissute, proclamandola il diacono da una parte diventa garante della sua autenticità, della sua universalità, dall’altra nella sua persona fa sintesi di tutte le esperienze di vita presenti alla celebrazione e aiuta ad interpretare in modo corretto questa Parola che si incarna, ma va oltre.
Proclamando la preghiera dei fedeli il diacono diventa portavoce dei bisogni della comunità tutta, ma anche garante degli impegni che la comunità si assume di fronte alla Chiesa e al mondo, che diventano preghiera di supplica al Signore della vita. La distribuzione della comunione come ministro ordinario mette il diacono nella veste di servo, che ha come compito principale quello di alimentare i fratelli di quel corpo di Cristo che ci fa comunità e che ci rende a nostra volta abili al servizio verso gli altri.
Infine il congedo che non deve essere visto solo come una formalità. Tra le tante formule previste io preferisco “Andate e portate nel mondo la gioia del Signore risorto” che impegna la comunità a far sì che la Messa, che come rito si conclude in quel momento, incominci a vivere e a dare frutti nel mondo attraverso la quotidianità della vita.
Credo che la bellezza del ministero diaconale sia la sua semplicità, essere servo può essere faticoso, ma è relativamente semplice. Dobbiamo essere fantasiosi e creativi su un cammino che però non è nostro, ci è stato preparato e donato e ci immette nella storia e nella vita di una comunità il cui Padre è misericordioso e ha un disegno di salvezza che per essere attuato ha bisogno di tutti, soprattutto di chi intende vivere la propria vita in dimensione di servizio.
Di conseguenza anche la spiritualità che sostiene la vita del diacono deve essere semplice, tenendo sempre ben presente che semplicità non vuoi dire banalità; deve alimentarsi della Parola e dell’Eucaristia, deve confrontarsi con i problemi della vita a livello sociale e comunitario, nel celebrare con gioia ogni Festa, ma soprattutto nella vita feriale dove sembra che tutto sia sempre uguale, ma in realtà è nella vita quotidiana che si costruisce il futuro.

diacono Roberto Bernasconi

Pubblicato sulla rivista Il diaconato in Italia – luglio/agosto 2020