Commissione teologica internazionale, IL DIACONATO: EVOLUZIONE E PROSPETTIVE 30 settembre 2002

Commissione teologica internazionale

Il diaconato: evoluzione e prospettive

Dopo un lavoro iniziato 10 anni fa su richiesta della Congregazione per la dottrina della fede, vede la luce ora il documento della Commissione teologica internazionale (CTI) Il diaconato: evoluzione e prospettive. È una ricerca scientifica storico-teologica: dopo un’analisi della ricorrenza del tema nella Scrittura e nei padri apostolici (cc. I-III), è affrontata la questione centrale della sacramentalità del diaconato e delle facoltà proprie del diacono (c. IV); quindi il significato, le forme e le funzioni del diaconato permanente com’è stato ristabilito dal Vaticano II e com’è oggi nelle diverse Chiese (cc. V e VI). Il c. VII tenta un approccio teologico nella linea del Concilio, per offrire un contributo all’elaborazione di «una teologia del ministero diaconale che possa costituire la base comune e sicura capace di ispirarne il rinnovamento».

Il documento è stato approvato all’unanimità dai 30 membri della CTI il 30 settembre 2002, e poi dal prefetto della Congregazione card. J. Ratzinger. Il 17 ottobre un comunicato stampa della CTI, in seguito al dibattito sorto circa l’esclusione o meno, nel testo, della possibilità dell’ordinazione delle donne al diaconato, precisava: «Lo studio della Commissione non ha concluso per una possibile apertura al riguardo…, ma si è espresso piuttosto nella linea di un’esclusione di tale possibilità».«Alla luce di tali elementi posti in evidenza dalla presente ricerca storico-teologica – afferma tuttavia nella sua conclusione il documento -, spetterà al ministero di discernimento che il Signore ha stabilito nella sua Chiesa pronunciarsi con autorità sulla questione».

La Civiltà cattolica (2003)I/3663, 253-336. Cf. Regno-att. 4,2003,86.

Introduzione*

Per attuare l’aggiornamento della Chiesa, il concilio Vaticano II ha cercato, nelle sue origini e nella sua storia, ispirazione e mezzi per annunciare e rendere presente in maniera più efficace il mistero di Gesù Cristo. Tra queste ricchezze della Chiesa si trova il ministero del diaconato, del quale i testi del Nuovo Testamento rendono testimonianza; tale ministero ha reso importanti servizi alla vita delle comunità cristiane soprattutto ai tempi della Chiesa primitiva. Entrato in declino nel Medioevo, esso è scomparso come ministero permanente, sussistendo solamente come transizione verso il presbiterato e l’episcopato. Ciò non ha impedito che dal tempo della scolastica sino ai nostri giorni ci si interessasse del suo significato teologico e, in particolare, del problema del suo valore sacramentale come grado dell’ordine.

Dopo la sua restaurazione come ministero effettivo messo a disposizione delle Chiese particolari dal concilio Vaticano II, si è assistito a un processo differenziato di recezione. Ogni Chiesa ha cercato di prendere coscienza della portata reale dell’iniziativa conciliare. Tenendo conto delle circostanze concrete della vita ecclesiale in ogni ambiente – variabile secondo i paesi e i continenti – i responsabili ecclesiali continuano a valutare l’opportunità o meno d’includere il diaconato permanente nella realtà delle comunità.

In tale processo di recezione sono sorti molti interrogativi in merito sia all’interpretazione dei dati neotestamentari e storici, sia alle implicazioni teologiche della decisione conciliare e delle conseguenze attribuitele in relazione al magistero ecclesiale. Inoltre, benché il Concilio non si sia pronunciato sul ministero diaconale femminile di cui si trova menzione nel passato, questo dev’essere studiato affinché se ne stabilisca lo statuto ecclesiale e affinché si esamini l’attualità che gli si potrebbe riconoscere.

La Commissione teologica internazionale (CTI) ha rivolto la propria attenzione su tali problemi per chiarirli grazie a una migliore conoscenza sia delle fonti storiche e teologiche, sia della vita attuale della Chiesa.

Se i fatti devono essere stabiliti rigorosamente con il metodo storico, nondimeno la loro considerazione diventa locus theologicus soltanto se compiuta alla luce del sensus fidei. Bisogna distinguere quello che si può riconoscere come costituente la tradizione, sin dalle origini, e le forme regionali o legate a un’epoca della stessa tradizione.1 In tale prospettiva, è fondamentale sottolineare il ruolo degli interventi che nella Chiesa sono di competenza della gerarchia, cioè le decisioni dei concili ecumenici e le dichiarazioni del magistero. In breve, per giungere a conclusioni propriamente teologiche occorre compiere uno sforzo di discernimento alla luce di tali interventi, pur ammettendo che la conoscenza della storia nella sua generalità abbia il vantaggio inestimabile di far conoscere la vita concreta della Chiesa, all’interno della quale c’è sempre un vero elemento umano e un vero elemento divino (Lumen gentium, n. 8). Ma solamente la fede è in grado di distinguere in essa l’azione dello Spirito di Dio. L’uomo, essere materiale e spirituale, storico e trascendente, diventa il destinatario provvidenziale di un’apertura di Dio nel suo Verbo fatto carne, e del suo Spirito, che, essendo pneuma e dynamis, dona agli uomini la capacità d’individuare nei fenomeni storici un Dio che si comunica con parole e segni. Proprio perché apre il suo mistero alla comunità di fede con la sua Parola e con il suo Spirito, Dio erige la Chiesa come comunità di testimoni, la cui testimonianza dipende dalla rivelazione e la rappresenta. Il dogma è la verbalizzazione della professione di fede della Chiesa, risposta alla rivelazione divina.

La sacra Scrittura, regola suprema della fede insieme con la tradizione (Dei Verbum, n. 21), ci presenta in un linguaggio vivo e spesso simbolico il mistero e la missione di Cristo, linguaggio che soprattutto la teologia speculativa cerca d’interpretare con rigore. Tuttavia, non si può dimenticare che in tutte le sue forme il linguaggio teologico rimane sempre analogico, poiché il suo criterio ultimo sta nella capacità di dire la Rivelazione. La regula fidei è la regula veritatis.

La presente ricerca è stata attenta alle divergenze che caratterizzano il ministero del diaconato nel corso delle varie epoche storiche e che ancora oggi animano il dibattito che esso suscita. La riflessione qui presentata si fonda sulla coscienza viva del dono fatto da Gesù Cristo alla sua Chiesa, quando ha comunicato ai dodici una responsabilità particolare per il compimento della missione che egli stesso ha ricevuto dal Padre. Lo Spirito non è mai mancato alla Chiesa per farle scoprire le ricchezze che Dio mette a sua disposizione e che sempre rendono di nuovo testimonianza della sua fedeltà al progetto di salvezza che egli ci offre nel suo Figlio. Con la sua condizione di servo, con la sua diaconia assunta in obbedienza al Padre e in favore degli uomini, secondo le sacre Scritture e la tradizione, Gesù Cristo ha realizzato il disegno divino di salvezza. Soltanto a partire da questo primo dato cristologico si possono comprendere la vocazione e la missione della diaconia nella Chiesa, manifestata nei suoi ministeri. In tale luce, ci chiederemo dapprima qual è il significato storico e teologico del ministero dei diaconi nel corso della storia della Chiesa, quali sono state le cause della sua scomparsa, per interrogarci infine sulla portata dell’introduzione oggi di un ministero diaconale effettivo al servizio della comunità cristiana.

 

  1. Dalla diaconia di Cristo alla diaconia degli apostoli

I.Diaconia di Cristo ed esistenza cristiana

Con l’incarnazione del Verbo che è Dio e mediante il quale tutto è stato fatto (cf. Gv 1,1-18) si è realizzata la rivoluzione più inimmaginabile. Il kyrios è il diakonos di tutti. Il Signore Dio viene incontro a noi nel suo servo Gesù Cristo, Figlio unico di Dio (Rm 1,3), che era nella morphe theou; egli «non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, ma spogliò se stesso, assumendo la morphe doulou e divenendo simile agli uomini (…), umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce» (Fil 2,6-8).

Così si può cogliere, in una prospettiva cristologica, ciò che è l’essenza del cristiano. L’esistenza cristiana è partecipazione alla diakonia, che Dio stesso ha compiuto per gli uomini; essa conduce ugualmente alla comprensione del compimento dell’uomo. Essere cristiano significa, sull’esempio di Cristo, mettersi al servizio degli altri sino alla rinuncia e al dono di sé, per amore.

Il battesimo conferisce il diakonein a ogni cristiano, che, in virtù della sua partecipazione alla diakonia, leitourgia e martyria della Chiesa, coopera al servizio di Cristo per la salvezza degli uomini. Infatti, essendo membra del Corpo di Cristo, tutti devono diventare servi gli uni degli altri con i carismi che hanno ricevuto per l’edificazione della Chiesa e dei fratelli nella fede e nell’amore: «Chi esercita un ufficio, lo compia con l’energia ricevuta da Dio» (1Pt 4,11; cf. Rm 12,8; 1Cor 12,5).

Questo servizio dei cristiani agli altri può concretizzarsi anche nelle varie espressioni di carità fraterna, di servizio ai malati nel corpo o nell’anima, ai bisognosi, ai carcerati (Mt 25), nell’aiuto recato alle Chiese (Rm 15,25; 1 Tm 5,3-16) o nelle diverse forme di assistenza agli apostoli, come si concepisce per i collaboratori e le collaboratrici dell’apostolo san Paolo, che rivolge ad essi i suoi saluti (Rm 16,3-5; Fil 4,3).

II.Diaconia degli apostoli

Poiché era il doulos, che eseguiva in totale obbedienza la volontà di salvezza del Padre, Gesù Cristo fu costituito Signore di tutta la creazione. Egli si fa realizzatore della sovranità di Dio mediante il dono della sua vita: «Il Figlio dell’uomo non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti» (Mc 10,45). Allo stesso modo Gesù ha istituito i dodici perché «stessero con lui e anche per mandarli a predicare, e perché avessero il potere di scacciare i demoni» (Mc 3,14-15). In maniera radicalmente opposta ai signori e ai potenti di questo mondo che abusano del loro potere, opprimono e sfruttano gli uomini, il discepolo dev’essere pronto a divenire diakonos e doulos di tutti (Mc 10,42-43).

Il diakonein è la caratteristica essenziale del ministero di apostolo. Gli apostoli sono collaboratori e servi di Dio (cf. 1Ts 3,2; 1Cor 3,9; 2Cor 6,1), «ministri di Cristo e amministratori dei misteri di Dio» (1Cor 4,1). Essi sono «ministri di una nuova alleanza» (2Cor 3,6) e ministri del Vangelo (cf. Col 1,23; Ef 3,6-7), «ministri della parola» (At 6,4). Sono, nella loro funzione di apostoli, «ministri della Chiesa», per realizzare in pienezza l’avvento della parola di Cristo tra i credenti (cf. Col 1,25) e per organizzare l’edificazione della Chiesa, corpo di Cristo, nell’amore (cf. Ef 4,12). Gli apostoli diventano servi dei credenti a causa di Cristo, quando non annunciano se stessi, ma Cristo Gesù Signore (2Cor 4,5). Sono mandati in nome di Cristo, poiché la parola è stata loro trasmessa affinché la proclamino al servizio della riconciliazione. Tramite loro, Dio stesso esorta e agisce nello Spirito Santo e nel Cristo Gesù, che ha riconciliato il mondo con lui (cf. 2Cor 5,20).

III.Diaconia dei collaboratori degli apostoli

Nelle comunità paoline si presentano, insieme, accanto o dopo san Paolo, san Pietro e gli altri undici apostoli (cf. 1Cor 15,3-5; Gal 2), collaboratori diretti di san Paolo nel ministero apostolico (ad esempio, Silvano, Timoteo, Tito, Apollo), e molti compagni nelle attività apostoliche e nel servizio alle Chiese locali (2Cor 8,23); è il caso di Epafrodito (Fil 2,25), Epafra (Col 4,12) e Archippo (Col 4,17), chiamati servi di Cristo. Nell’indirizzo della Lettera ai Filippesi (verso il 50 d. C.), san Paolo saluta in particolare «i vescovi e i diaconi» (Fil 1,1). Qui, occorre pensare ai ministeri che stanno prendendo forma nella Chiesa.

Certo, la terminologia dei ministeri non è ancora fissata. Si parla di proistamenoi (Rm 12,8), «che vi sono preposti nel Signore e vi ammoniscono», che i tessalonicesi li trattino «con molto rispetto e carità, a motivo del loro lavoro» (1Ts 5,12); si parla dei capi (hegoumenoi), «i quali vi hanno annunciato la parola di Dio»; e la Lettera agli Ebrei aggiunge: «Obbedite ai vostri capi e state loro sottomessi» (13,7.17; cf. 13,24; cf. 1Clem 1,3; 21,6); si parla degli uomini «inviati» che guidano le comunità (cf. At 15,22), degli apostoli, profeti, dottori (cf. 1Cor 12,28; Gal 6,6: At 13,1; 14,4.14), degli «evangelisti, oppure dei pastori e dottori» (Ef 4,11). San Paolo parla di «primizie dell’Acaia» a proposito di Stefana, Fortunato e Acaico, «che hanno dedicato se stessi a servizio dei fedeli» (1Cor 16,15); esorta i corinzi: «Siate anche voi deferenti verso di loro e verso quanti collaborano e si affaticano con loro» (1Cor 16,16).

L’attività espressa in questi termini indica i titoli ufficiali che si cristallizzano poco dopo. Appare da tali testi che la Chiesa primitiva attribuisce la formazione dei diversi ministeri all’azione dello Spirito Santo (1Cor 12,28; Ef 4,11; At 20,28) e all’iniziativa degli apostoli, che devono il loro invio in missione all’Altissimo e Signore di questo mondo e che àncorano il loro ruolo di sostegno della Chiesa nel potere ricevuto da lui (Mc 3,13-19; 6,6-13; Mt 28,16-20; At 1,15-26; Gal 1,10-24).

Il diakonein si è rivelato come determinazione radicale dell’esistenza cristiana, che si esprime nel fondamento sacramentale dell’essere cristiano, dell’edificazione carismatica della Chiesa, come pure nell’invio in missione degli apostoli e nel ministero – derivante dall’apostolato – della proclamazione del Vangelo, della santificazione e della direzione delle Chiese.

 

  1. Il diaconato nel Nuovo Testamento e nella patristica

I.Il diaconato nel Nuovo Testamento

  1. Le difficoltà terminologiche

La parola diakonos è quasi assente nell’Antico Testamento (AT), contrariamente all’uso abbondante di presbyteros. Nella Settanta, nei rari passi in cui la parola diakonos è attestata, essa significa messaggero, corriere, servo.1 La Bibbia latina (Vulgata) l’ha tradotta in un senso generale con minister o in un senso specifico traslitterando il termine greco con diaconus. Ma i termini minister, ministerium, ministrare corrispondono anche ad altri termini greci, come hyperetes, leitourgos. Nella Vulgata troviamo tre volte l’uso di diaconus.2 Negli altri casi il termine è tradotto con minister.3

A parte i termini diakoneo, diakonia, diakonos, il greco poteva scegliere tra le parole seguenti: douleuo (servire in quanto servitore), therapeuo (colui che è impegnato come volontario), latreuo (servire per la paga), leitourgeo (colui che è legato a un ufficio pubblico), hypereteo (governare).4 In ogni caso, è caratteristico il fatto che la forma verbale diakonein sia ignorata dalla Settanta, poiché le funzioni di servizio sono tradotte con leitourgein o latreuein. Filone l’adoperava solamente nel senso di «servire».5 Giuseppe la conosce nel senso di «servire», «obbedire» e «servizio sacerdotale».6 Nel Nuovo Testamento (NT) la parola douleo significava un servizio di carattere molto personale, il servizio della carità. Nel linguaggio dei Vangeli7 così come negli Atti (6,2), diakoneo significa il «servizio della mensa». Fare una colletta di cui Paolo porterà con sé l’ammontare a Gerusalemme è un servizio del genere.8 L’apostolo va a Gerusalemme per «il servizio dei santi».9

Quanto all’uso dei termini cheirotonia, cheirothesia, ordinatio esiste nei loro confronti un’incertezza terminologica.10

  1. I dati del NT

Il primo dato pertinente e fondamentale del NT è che il verbo diakonein indica la stessa missione di Cristo come servo (Mt 10,45par; cf. Mt 12,18; At 4,30; Fil 2,6-11). Questa parola o i suoi derivati indicano anche l’esercizio del servizio da parte dei suoi discepoli (Mc 10,43ss; Mt 20,26ss; 23,11; Lc 8,3; Rm 15,25), i servizi di generi diversi nella Chiesa, soprattutto il servizio apostolico di predicare il Vangelo e altri doni carismatici.11

I termini diakonein e diakonos sono molto generici nel linguaggio del Nuovo Testamento.12

Il diakonos può significare il servo a mensa (ad esempio, Gv 2,5 e 9), il servo del Signore (Mt 22,13; Gv 12,26; Mc 9,35; 10,43; Mt 20,26; 23,11), il servo di un potere spirituale (2Cor 11,14; Ef 3,6; Col 1,23; Gal 2,17; Rm 15,8; 2Cor 3,6), il servo del Vangelo, di Cristo, di Dio (2Cor 11,23), le autorità pagane sono anche al servizio di Dio (Rm 13,4), i diaconi sono i servi della Chiesa (Col 1,25; 1Cor 3,5). Nel caso in cui il diacono appartenga a una delle Chiese, la Vulgata non adopera il termine minister, ma conserva la parola greca diaconus.13 Questo dimostra proprio che in At 6,1-6 non si tratta dell’istituzione del diaconato.14

«Diaconato» e «apostolato» sono talvolta sinonimi, come in At 1,17-25, dove – in occasione dell’aggregazione di Mattia agli 11 apostoli – Pietro definisce l’apostolato «parte del nostro ministero» (v. 17: ton kleron tes diakonias tautes) e parla di servizio e di apostolato (v. 25: ton topon tes diakonias kai apostoles, che è tradotto dalla TOB: «il servizio dell’apostolato»). Questo testo degli Atti cita anche Sal 109,8: «Un altro prenda il suo incarico (ten episkopen)». Sorge la domanda: diakonia, apostole, episkope, si equivalgono o no? Secondo l’opinione di M.J. Schmitt e J. Colson l’«apostolato» è «una clausola redazionale che corregge “diakonias”».15

At 6,1-6 descrive l’istituzione dei «sette»16 «per il servizio delle mense». La ragione è data da Luca con l’indicazione di una tensione all’interno della comunità: «Sorse un malcontento tra gli ellenisti (egeneto goggysmos) verso gli ebrei, perché venivano trascurate le loro vedove nella distribuzione quotidiana» (At 6,1). Rimane da sapere se le vedove degli «ellenisti» appartenessero o meno alla comunità, a motivo dello stretto rispetto della purità rituale. Gli apostoli desideravano forse mandare in provincia gli «ellenisti» frondisti di Gerusalemme che nella loro predicazione nella sinagoga moltiplicavano le provocazioni? Per questo forse gli apostoli hanno scelto i sette, cifra corrispondente al numero dei magistrati delle comunità di provincia legate a una sinagoga? Ma, nello stesso tempo, con l’atto delle imposizioni delle mani, volevano preservare l’unità dello Spirito ed evitare la scissione.17 I commentatori degli Atti non spiegano il significato di tale imposizione delle mani degli apostoli.

È probabile che gli apostoli abbiano destinato i sette a essere a capo dei cristiani «ellenisti» (ebrei battezzati di lingua greca) per svolgere lo stesso compito dei presbiteri tra i cristiani «ebrei».18

La ragione data per la designazione dei sette eletti (le mormorazioni tra gli ellenisti) è in contraddizione con la loro attività com’è descritta successivamente da Luca. Non sappiamo nulla del servizio delle mense. A proposito dei sette, Luca parla soltanto dell’attività di Stefano e di Filippo; o, più esattamente, del discorso di Stefano nella sinagoga di Gerusalemme e del suo martirio, come dell’apostolato, a Samaria, di Filippo che ha anche battezzato.19 E gli altri?20

Nelle Chiese affidate alla cura apostolica di san Paolo, i diaconi compaiono accanto agli episkopoi come esercitanti un ministero che è a essi subordinato o coordinato (Fil 1,1; 1Tm 3,1-13). Già negli scritti apostolici si fa menzione dei diaconi con il vescovo o del vescovo con i presbiteri. Rare, invece, sono le fonti storiche che citino i tre riuniti: vescovo, presbitero e diacono.

II.I padri apostolici

La prima lettera di san Clemente di Roma ai Corinzi (sec. I) afferma che gli episcopi e i diaconi hanno una funzione spirituale nella comunità: «Gli apostoli hanno ricevuto per noi la buona notizia dal Signore Gesù Cristo; Gesù, il Cristo, è stato inviato da Dio. Dunque il Cristo viene da Dio, gli apostoli vengono da Cristo; le due cose sono uscite in bell’ordine dalla volontà di Dio (egenonto oun amphotera eutaktos ek thelematos Theou). Hanno dunque ricevuto istruzioni e, ripieni di certezza per la risurrezione di nostro Signore Gesù Cristo, confortati dalla parola di Dio, con la piena certezza dello Spirito Santo, sono partiti ad annunciare la buona notizia che il regno di Dio stava per giungere. Predicavano nelle campagne e nelle città e ne stabilivano (kathistanon) le primizie, le provavano con lo Spirito, per farne gli episcopi e i diaconi (eis episkopous kai diakonous) dei futuri credenti. E qui non c’era nulla di nuovo (ou kainos); poiché da moltissimo tempo la Sacra Scrittura parlava degli episcopi e dei diaconi (egegrapto peri episkopon kai diakonon); sta scritto in qualche parte: “Costituirò i loro episcopi nella giustizia e i loro diaconi nella fede”».21

Quando l’autore della Lettera di Clemente parla delle funzioni religiose, si riferisce all’AT;22 quando spiega l’istituzione degli episkopoi kai diakonoi, si riferisce alla volontà di Dio, agli apostoli.23 L’ordine degli episcopi e dei diaconi non era un’innovazione, ma è stato fondato nella volontà di Dio, dunque è un «bell’ordine»; il loro invio ha origine in Dio stesso. I successori eletti dagli apostoli sono le primizie offerte a Dio. Gli apostoli avevano provato gli eletti per mezzo dello Spirito; quelli che sarebbero loro succeduti saranno stabiliti con l’elezione da parte dell’intera assemblea.24 Qui troviamo la tradizione delle lettere pastorali, proseguita attraverso: 1) la prova nello Spirito (cf. 1Tm 3,1-7 e 8,10ss); 2) l’uso giustapposto dei termini episkopos kai diakonos (cf. Fil 1,1), dove episkopos non corrisponde ancora alla definizione attuale di vescovo.25 Va notato l’accostamento fatto da Policarpo del ministero dei diaconi al servizio di Cristo salvatore: «Camminino nella verità del Signore che si è fatto servo (diakonos) di tutti» (Filip 5, 2).

Il testo di Didachè 15,1 (prima del 130 d. C.) menziona soltanto i vescovi e i diaconi, che sono i successori dei profeti e dei didaskaloi, tacendo sui presbiteri: «Sceglietevi dunque vescovi e diaconi degni del Signore, uomini miti, disinteressati, amanti della verità e sicuri, poiché anch’essi svolgono, presso di voi, l’ufficio di profeti e di dottori».26 J.-P. Audet osserva: «Le due parole, è vero, rendono un altro suono alle nostre orecchie. Ma in greco, all’epoca in cui ci riporta la Didachè, un episkopos è un sorvegliante, un caposquadra, un curatore, un moderatore, un guardiano, un intendente… Un diakonos, d’altra parte, è semplicemente un servo in grado di svolgere diverse funzioni secondo le circostanze particolari del suo servizio. I due termini sono generici (…). Il modo concreto di designazione (cheirotonèsate) rimane per noi oscuro. Essi sono scelti e nominati, forse con elezione: è tutto quanto si può dire».27 La Didachè non dice una parola sull’ordinazione. Secondo K. Niederwimmer, il termine cheirotonein significa l’elezione.28

È certo che in questa epoca antica i diaconi erano responsabili della vita della Chiesa riguardo alle opere di carità in favore delle vedove e degli orfani, come era il caso nella prima comunità di Gerusalemme. Le loro attività erano senza dubbio connesse con la catechesi e probabilmente anche con la liturgia. I dati su questo argomento però sono talmente succinti29 che è difficile dedurne quale fosse di fatto la portata delle loro funzioni.

Le Lettere di sant’Ignazio di Antiochia segnano una nuova tappa. Le sue affermazioni sulla gerarchia ecclesiastica con i suoi tre gradi assomigliano a quelle di Clemente di Roma: «Tutti rispettino i diaconi come Gesù Cristo, come pure il vescovo, che è l’immagine del Padre, e i presbiteri come il senato di Dio e come l’assemblea degli apostoli: senza di loro non si può parlare di Chiesa».30 E anche: «Seguite tutti il vescovo, come Gesù Cristo [segue] il Padre, e i presbiteri come gli apostoli; quanto ai diaconi, rispettateli come la legge di Dio».31 I testi ignaziani parlano al singolare del vescovo, al plurale dei presbiteri e dei diaconi, ma non dicono nulla sul carattere del diaconato: esortano solamente a venerare i diaconi come gli inviati di Dio.

Notizie concernenti soprattutto l’attività liturgica dei diaconi ci sono fornite da san Giustino († 165). Egli descrive il ruolo dei diaconi nell’eucaristia durante l’oblatio e la communio: «Dopo, si porta a colui che presiede l’assemblea dei fratelli pane e una coppa di acqua e di vino misto ad acqua (…); una volta terminate le preghiere e l’azione di grazie, tutto il popolo presente esprime il proprio assenso rispondendo Amen (…). Quando il presidente dell’assemblea ha terminato la preghiera dell’azione di grazie (eucaristia) e quando tutto il popolo ha dato la sua risposta, coloro che noi chiamiamo i diaconi (oi kaloumenoi par’ hemin diakonoi) danno a ognuno dei presenti la possibilità di aver parte al pane e vino misto ad acqua sui quali è stata detta la preghiera dell’azione di grazie (eucaristia), e ne portano agli assenti».32

III.Il consolidamento e lo sviluppo del diaconato nei secoli III e IV

Secondo Clemente di Alessandria ci sono nella Chiesa – come nella vita della società civile – competenze che mirano a migliorare sia i corpi, sia le anime (therapeia beltiotike, hyperetike). Ci sono anche quelle che, di per se stesse, sono ordinate al servizio delle persone di un rango superiore. Al primo genere appartengono i preti, al secondo i diaconi.33 In Origene, la diakonia del vescovo è sempre il servizio di tutta la Chiesa (ekklesiastike diakonia); il vescovo è chiamato «principe» e, nello stesso tempo, è chiamato anche «servo di tutti».34 I diaconi sono spesso oggetto della critica di Origene perché sono posseduti particolarmente dallo spirito di cupidigia. A motivo del loro incarico caritativo, erano maggiormente in contatto con il denaro. In un testo sull’espulsione dei mercanti dal tempio, Origene parla di quei «diaconi che non amministrano bene le mense del denaro della Chiesa (cioè dei poveri), ma si trovano sempre in frode nei loro confronti».35 «Raccolgono per se stessi ricchezze sottraendo il denaro dei poveri».36

Nella Didascalia (sec. III) si trova una certa supremazia dei diaconi sui preti, poiché sono paragonati a Cristo, mentre i presbiteri lo sono soltanto agli apostoli.37 Ma, da una parte, i preti sono presentati come il senato della Chiesa e gli assessori del vescovo: sono collocati attorno all’altare e al trono episcopale. I diaconi, a loro volta, sono chiamati i «terzi», e ciò suggerisce verosimilmente che essi vengono dopo il vescovo e i preti. D’altra parte, i diaconi sembrano aver goduto di un prestigio e di un’azione che superavano quelli dei preti. I laici dovranno avere una grande fiducia nei diaconi e non dovranno importunare continuamente il capo, ma gli faranno dire ciò che desiderano attraverso gli hyperetai, cioè i diaconi, poiché nessuno può avvicinarsi al Signore Dio onnipotente se non mediante Cristo.38 Nella Didascalia la crescita del prestigio del diaconato nella Chiesa è notevole, e ciò avrà come conseguenza la crisi nascente nelle relazioni reciproche tra i diaconi e i presbiteri. Alla funzione sociale e caritativa dei diaconi si aggiunge quella di assicurare vari servizi durante le assemblee liturgiche: designazione dei posti durante l’accoglienza dei forestieri e dei pellegrini, incarico delle offerte, sorveglianza dell’ordine e del silenzio, attenzione alla convenienza dell’abbigliamento.

La Tradizione apostolica di Ippolito di Roma († 235) presenta per la prima volta lo statuto teologico e giuridico del diacono nella Chiesa. Egli lo annovera nel gruppo degli ordinati con l’imposizione delle mani (cheirotonein), opponendoli a coloro che nella gerarchia sono chiamati instituti. L’«ordinazione» dei diaconi è fatta unicamente dal vescovo (c. 8). Tale vincolo definisce l’ampiezza dei compiti del diacono, che è a disposizione del vescovo per eseguirne gli ordini, ma che è escluso dalla partecipazione al consiglio dei presbiteri.

Si possono mettere a confronto i due testi dell’ordinazione dei diaconi, quello del Veronense (L, versione latina) e quello della versione sahidica, etiopica (S[AE]), perché si trovano alcune differenze tra loro. Il testo L dice: «Diaconus vero cum ordinatur, eligatursecundum ea, quae praedicta sunt, similiter imponens manus episcopus solus sicuti praecipimus». Il testo (S[AE]) è più chiaro: «Episcopus autem instituet (kathistasthai)diaconum qui electus est, secundum quod praedictum est». Rimane tuttavia una differenza tra ordinatio e institutio. Il c. 10 della Tradizione apostolica relativo alle vedove reca alcuni elementi significativi: «Non autem imponetur manus super eam, quia non offert oblationem neque habet liturgiam. Ordinatio (cheirotonia)autem fit cum clero (kleros) propter liturgiam. Vidua (chera) autem instituitur (kathistasthai) propter orationem: haec autem est omnium».39 Secondo questo testo, se l’imposizione delle mani è assente dal rito, allora non può trattarsi che dell’istituzione (katastasis, institutio) e non dell’ordinatio. Così, nel III secolo, l’imposizione delle mani costituisce già il segno distintivo del rituale dell’ordinazione degli ordini maggiori. Nel IV secolo essa sarà estesa anche agli ordini minori.

Per ciò che riguarda la liturgia, l’ufficio del diacono è di portare le offerte e di distribuirle. Nell’amministrazione del battesimo, il suo compito era di accompagnare il presbitero e di presentargli «l’olio dei catecumeni e il crisma, e anche di scendere nell’acqua con chi stava per ricevere il battesimo» (c. 21). Un altro campo dell’impegno dei diaconi era l’insegnamento: «Si riuniscano, istruiscano coloro con i quali sono nella Chiesa…» (c. 39). In modo particolare si sottolinea la loro attività sociale in stretta unione con il vescovo.

Secondo san Cipriano «i diaconi non devono dimenticare che il Signore stesso ha scelto gli apostoli, cioè i vescovi e i capi della Chiesa, mentre i diaconi sono stati gli apostoli dopo l’Ascensione del Signore a istituirli per essere i ministri del loro episcopato e della Chiesa. Quindi, né più né meno di quanto possiamo noi compiere qualche cosa contro Dio che fa i vescovi, neppure loro possono fare qualche cosa contro di noi, che li facciamo diaconi».40 Sembra che, di quando in quando, anche a Cartagine i diaconi volessero occupare il posto dei presbiteri. Fu necessario ammonirli: i diaconi vengono in terzo luogo nell’enumerazione della gerarchia. Durante la sede vacante, essi svolgono anche un ruolo importante nella direzione della Chiesa. Cipriano, esiliato, si rivolge abitualmente «ai preti e ai diaconi» per trattare problemi disciplinari. I preti e i diaconi sono talvolta designati con il termine clerus, meno frequentemente sono chiamati praepositi in Cipriano.41 Il prete Gaius Didensis e i suoi diaconi devono offrire insieme l’eucaristia, ma la quinta Lettera segnala che in realtà sono i preti che la offrono, assistiti dai diaconi.42 Invece, ai diaconi spetta piuttosto l’esercizio della carità nella visita delle carceri. Essi sono presentati come «boni viri et ecclesiasticae administrationis per omnia devoti».43 Il termine administratio lo ritroviamo nell’espressione sancta administratio applicata al diacono Nicostrato a proposito del denaro della Chiesa che egli custodiva. Così i diaconi sarebbero incaricati non soltanto dell’esercizio della carità verso i poveri, ma anche dell’amministrazione dei beni finanziari appartenenti alla comunità.44

Riassumendo, possiamo dire che, al di là del fatto dell’esistenza del diaconato in tutte le Chiese sin dall’inizio del II secolo e del suo carattere di ordine ecclesiastico, i diaconi all’inizio svolgono dappertutto lo stesso ruolo, benché gli accenti posti sui diversi aspetti del loro impegno siano distribuiti diversamente nelle varie regioni. Il diaconato raggiunge la sua stabilizzazione nel corso del IV secolo. Nelle direttive sinodali e conciliari proprie di tale periodo, il diaconato è considerato come elemento essenziale della gerarchia della Chiesa locale. Nel sinodo di Elvira (circa 306-309) se ne sottolinea anzitutto il ruolo prevalente nel settore amministrativo della Chiesa. Paradossalmente, mentre impone un certo limite all’impegno dei diaconi nel settore liturgico, questo sinodo attribuisce loro la possibilità di dare l’assoluzione dei peccati nei casi urgenti. Tale tendenza a invadere il campo della competenza dei presbiteri, che si manifesta anche nella pretesa di presiedere l’eucaristia (anche se a titolo eccezionale), è respinta dal sinodo di Arles (314) e soprattutto dal concilio di Nicea (325, can. 18).

Le Costituzioni apostoliche (CA), che sono la più straordinaria tra le raccolte giuridiche redatte nel IV secolo, riprendono le diverse parti della Didachè e della Didascalia relative ai diaconi per farne commenti che riflettono i punti di vista dell’epoca. Vi si integrano anche le affermazioni di sant’Ignazio di Antiochia nelle sue Lettere, fornendo in tal modo notizie significative. Una tendenza allo storicismo costituisce la specificità del testo, tanto più che l’autore-redattore cerca prefigurazioni nei passi paralleli dell’AT. Introduce il suo discorso con una formula solenne (cf. Dt 5,31 e 27,9): «Ascolta, Chiesa sacra e cattolica (…). Poiché sono loro i vostri pontefici; i vostri preti, sono i presbiteri, e i vostri leviti sono ora i diaconi, sono i vostri lettori, cantori e ostiari, sono le vostre diaconesse, le vostre vedove e i vostri orfani (…). Il diacono lo assisterà come Cristo assiste il Padre…».45 Descrive il rapporto del vescovo con il diacono richiamandosi alle prefigurazioni dell’antica alleanza e ai modelli celesti: «Per voi ora, Aronne è il diacono, e Mosè il vescovo; se dunque Mosè è stato chiamato dio dal Signore, tra voi il vescovo sarà ugualmente onorato come un dio, e il diacono come il suo profeta (…), e come il Figlio è l’angelo e il profeta di Dio, così il diacono è l’angelo e il profeta del vescovo».46 Il diacono rappresenta l’occhio, l’orecchio, la bocca del vescovo, «perché il vescovo non abbia a occuparsi della moltitudine degli affari, ma soltanto dei più importanti, come Jetro propose per Mosè, e il suo consiglio fu bene accolto».47 La preghiera di ordinazione del diacono da parte del vescovo attesta che il diaconato è considerato come un grado transitorio verso il presbiterato: «Concedigli di compiere con soddisfazione il servizio che gli è stato affidato, in maniera gradita, senza deviazione né biasimo né rimprovero, per essere ritenuto degno di un grado superiore (meizonos axiothenai bathmou), con la mediazione del tuo Cristo, tuo Figlio unigenito…».48

Nell’Euchologion di Serapione (verso la fine del IV secolo) figura la preghiera di ordinazione del diacono, la cui terminologia è analoga a quella della versione sahidica della Tradizione apostolica. Il testo della preghiera fa allusione ai canoni della Chiesa, ai tre gradi della gerarchia, e si riferisce ai sette in Atti 6; per designare l’ordinazione del diacono, usa il verbo katisthanai: «Pater Unigeniti, qui filium misisti tuum et ordinasti res super terra atque ecclesiae canones et ordines dedisti in utilitatem et salutem gregum, qui elegisti episcoposet presbyteros et diaconos in ministerium catholicae tuae ecclesiae, qui elegisti per unigenitum tuum septemdiaconos eisque largitus es spiritum sanctum: constitue (katasteson)et hunc diaconum ecclesiae tuae catholicae et da in eo spiritum cognitionis ac discretionis, ut possit inter populum sanctum pure et immaculate ministrare in hoc ministerio per unigenitum tuum Iesum Christum, per quem tibi gloriam et imperium, in Sancto Spiritu et nunc et in omnia saecula saeculorum, amen».49

La preghiera della consacrazione del diacono nel Sacramentarium veronense parla del servizio del santo altare e, come il testo delle Costituzioni apostoliche, considera il diaconato come un grado transitorio: «Oremus (…) quos consecrationis indultae propitius dona conservet (…) quos ad officium levitarum vocare dignaris, altaris sancti ministerium tribuas sufficienter implere (…) trinis gradibus ministrorum nomini tuo militare constituens (…) dignisque successibus de inferiori gradu per gratiam tuam capere potiora mereantur».50 Il Sacramentarium gregorianum è del tutto analogo ai testi precedentemente citati. Ricorda anche i tre gradi e, per designare l’ordinazione del diacono, usa la parola «constituere».51

Dietro la loro apparente unanimità, le dichiarazioni dei Padri della Chiesa, nel IV secolo, lasciano sfuggire alcuni dissensi ben noti dal III secolo, come, per esempio, la pretesa dei diaconi di appropriarsi dei posti, del rango e dei compiti dei presbiteri.52

Aveva la sua parte anche la concezione secondo la quale i tre gradi (vescovo, presbitero, diacono) erano come gli elementi dell’unico e medesimo ordine. Lo Pseudo-Atanasio ne parla nella sua opera De Trinitate come di una «consustanzialità».53 Inoltre, il cristianesimo cominciava a diffondersi nelle province; i vescovi o i presbiteri lasciavano le città malvolentieri; i diaconi invece molto volentieri, ma abusando della situazione nella misura in cui si appropriavano di alcuni diritti dei presbiteri. Anche il contesto storico contribuisce a tale evoluzione. Infatti, gli ariani avevano compromesso il prestigio dell’episcopato. Accanto a vescovi e a presbiteri avidi di potere e di denaro, la popolarità dei diaconi ha conosciuto una grande crescita, a motivo del loro stretto legame con i monaci e con il popolo. Secondo l’opinione generale nel IV secolo, i diaconi sono stati istituiti dagli apostoli, e il vescovo li ordina allo stesso titolo dei presbiteri. I diaconi appartengono al clero, ma assistono soltanto alla liturgia.54

Le fonti ci fanno vedere che anche Crisostomo non è riuscito a collocare, in maniera evidente, i tre gradi dell’ordine ecclesiale in una continuità storica. Per il presbiterato ci sono stati modelli tra i giudei; invece l’episcopato e il diaconato sono stati costituiti dagli apostoli. Non è chiaro che cosa si debba intendere qui con tali nozioni.55 Crisostomo fa risalire il diaconato a un’istituzione dello Spirito Santo.56 In quello stesso secolo anche i latini hanno ripreso il termine greco «diaconus», come attesta sant’Agostino.57

Il secolo IV segna la conclusione del processo che ha condotto a riconoscere il diaconato come un grado della gerarchia ecclesiale, posto dopo il vescovo e i presbiteri, con un ruolo ben definito. Legato alla missione e alla persona del vescovo, tale ruolo comprendeva tre compiti: il servizio liturgico, il servizio di predicare il Vangelo e di insegnare la catechesi, come anche una vasta attività sociale concernente le opere di carità e un’attività amministrativa secondo le direttive del vescovo.

IV.Il ministero delle diaconesse

In epoca apostolica, diverse forme di assistenza diaconale agli apostoli e alle comunità esercitate da donne sembrano avere un carattere istituzionale. Così Paolo raccomanda alla comunità di Roma «Febe, nostra sorella, diaconessa (he diakonos) della Chiesa di Cencre» (cf. Rm 16,1-4). Benché qui sia usata la forma maschile di diakonos, non possiamo concludere che essa indichi già la funzione specifica di «diacono»; da una parte, perché, in questo contesto, diakonos significa ancora, in un senso molto generale, servo e, d’altra parte, perché la parola «servo» non ha un suffisso femminile, ma è preceduta da un articolo femminile. Ciò che pare certo è che Febe ha esercitato un servizio nella comunità di Cencre, riconosciuto e subordinato al ministero dell’Apostolo. Altrove, in Paolo, le stesse autorità civili sono chiamate diakonos (Rm 13,4) e, in 2Cor 11,14-15, si parla di diakonoi del diavolo.

Gli esegeti sono divisi riguardo a 1Tm 3,11. La menzione delle «donne» dopo i diaconi può far pensare a donne-diaconi (stessa presentazione con «similmente»), o alle spose dei diaconi dei quali si è parlato prima. In questa Lettera non sono descritte le funzioni del diacono, ma solamente le condizioni della loro ammissione. Si dice che le donne non devono insegnare né dirigere gli uomini (1Tm 2,8-15). Ma le funzioni di direzione e d’insegnamento sono in ogni caso riservate al vescovo (1Tm 3,5) e ai presbiteri (1Tm 5,17), non ai diaconi. Le vedove costituiscono un gruppo riconosciuto nella comunità, da cui ricevono assistenza in cambio del loro impegno alla continenza e alla preghiera. 1Tm 5,3-16 insiste sulle condizioni della loro iscrizione nella lista delle vedove aiutate dalla comunità e non dice altro sulle loro eventuali funzioni. Più tardi, esse saranno ufficialmente «istituite», ma «non ordinate»;58 costituiranno un «ordine» nella Chiesa59 e non avranno mai altra missione che il buon esempio e la preghiera.

All’inizio del II secolo una lettera di Plinio il Giovane, governatore della Bitinia, menziona due donne, designate dai cristiani come ministrae, equivalente probabile del greco diakonoi (X, 96-97). Solamente nel III secolo compaiono i termini specificamente cristiani di diaconissa o diacona.

Infatti, a partire dal III secolo, in alcune regioni della Chiesa60 – e non in tutte – è attestato un ministero ecclesiale specifico attribuito alle donne chiamate diaconesse.61 Si tratta della Siria orientale e di Costantinopoli. Verso il 240 compare una compilazione canonico-liturgica singolare, la Didascalia degli apostoli (DA), che non ha carattere ufficiale. Il vescovo vi ha i tratti di un patriarca biblico onnipotente (cf. DA 2, 33-35, 3). È a capo di una piccola comunità, che egli dirige soprattutto con l’aiuto di diaconi e diaconesse. Queste ultime fanno qui la loro prima apparizione in un documento ecclesiastico. Secondo una tipologia presa a prestito da Ignazio di Antiochia, il vescovo occupa il posto di Dio Padre, il diacono quello di Cristo e la diaconessa quella dello Spirito Santo (parola al femminile nelle lingue semitiche), mentre i presbiteri (poco citati) rappresentano gli apostoli, e le vedove l’altare (DA 2, 26, 4-7). Non si parla dell’ordinazione di questi ministri.

La Didascalia mette l’accento sul ruolo caritativo del diacono e della diaconessa. Il ministero della diaconia deve apparire come «una sola anima in due corpi». Esso ha per modello la diaconia di Cristo, che ha lavato i piedi ai suoi discepoli (DA 3, 13, 1-7). Tuttavia, non c’è uno stretto parallelismo tra i due rami del diaconato quanto alle funzioni esercitate. I diaconi sono scelti dal vescovo per «occuparsi di molte cose necessarie», e le diaconesse solamente «per il servizio delle donne» (DA 3, 12, 1). È desiderabile che «il numero dei diaconi sia in proporzione a quello dell’assemblea del popolo di Dio» (DA 3, 13 ,1).62 I diaconi amministrano i beni della comunità in nome del vescovo; e, come il vescovo, sono mantenuti da essa. I diaconi sono detti orecchie e bocca del vescovo (DA 2, 44, 3-4). Il fedele deve passare attraverso di essi per accedere al vescovo; allo stesso modo le donne devono passare attraverso le diaconesse (DA 3, 12, 1-4). Un diacono vigila gli ingressi nella sala delle riunioni, mentre un altro assiste il vescovo per l’offerta eucaristica (DA 2, 57, 6).

La diaconessa deve procedere all’unzione corporale delle donne al momento del battesimo, istruire le donne neofite, andare a visitare a casa le donne credenti e soprattutto le ammalate. Le è vietato amministrare il battesimo o svolgere un ruolo nell’offerta eucaristica (DA 3, 12, 1-4). Le diaconesse hanno preso il sopravvento sulle vedove. Il vescovo può sempre istituire vedove, ma esse non devono né insegnare né amministrare il battesimo (delle donne), ma soltanto pregare (DA 3, 5, 1-3, 6, 2).

Le Costituzioni apostoliche, apparse verso il 380 in Siria, utilizzano e interpolano la Didascalia, la Didachè e anche la Tradizione apostolica. Eserciteranno un influsso durevole sulla disciplina delle ordinazioni in Oriente, benché non siano state mai considerate una raccolta canonica ufficiale. Il compilatore prevede l’imposizione delle mani con epiclesi dello Spirito Santo non solo per i vescovi, i presbiteri e i diaconi, ma anche per le diaconesse, i suddiaconi e i lettori (cf. CA VIII, 16-23).63 La nozione di kleros è estesa a tutti coloro che esercitano un ministero liturgico, che traggono la loro sussistenza dalla Chiesa e godono dei privilegi civili che la legislazione imperiale concede ai chierici, in modo che le diaconesse fanno parte del clero, mentre le vedove ne rimangono escluse.

Vescovo e presbiteri sono visti in parallelo rispettivamente con il sommo sacerdote e i preti dell’antica Alleanza, mentre ai leviti corrispondono tutti gli altri ministri e stati di vita: «diaconi, lettori, cantori, ostiari, diaconesse, vedove, vergini e orfani» (CA II, 26, 3; VIII, 1, 21). Il diacono è posto «al servizio del vescovo e dei presbiteri» e non deve usurpare le funzioni di questi ultimi.64 Il diacono può proclamare il Vangelo e guidare la preghiera dell’assemblea (CA II, 57, 18), ma soltanto il vescovo e i presbiteri esortano (CA II, 57, 7). L’entrata in funzione delle diaconesse si fa con una epithesis cheiron o imposizione delle mani che conferisce lo Spirito Santo,65 come per il lettore (CA VIII, 20.22). Il vescovo pronuncia la seguente preghiera: «Dio, eterno, Padre di nostro Signore Gesù Cristo, creatore dell’uomo e della donna, tu che hai riempito di spirito Myriam, Debora, Anna e Ulda, che non hai giudicato indegno che tuo Figlio, l’Unigenito, nascesse da una donna, tu che nella tenda della testimonianza e nel tempio hai istituito custodi per le tue porte sante, tu stesso guarda ora la tua serva qui presente, proposta per il diaconato, donale lo Spirito Santo e purificala da ogni impurità della carne e dello spirito perché compia degnamente l’ufficio che le è stato affidato, per la tua gloria e a lode del tuo Cristo, da cui a te gloria e adorazione nello Spirito Santo per i secoli. Amen».66

Le diaconesse sono nominate prima del suddiacono, il quale riceve una cheirotonia come il diacono (CA VIII, 21), mentre le vergini e le vedove non possono essere «ordinate» (VIII, 24-25). Le Costituzioni insistono perché le diaconesse non abbiano alcuna funzione liturgica (III 9, 1-2), ma estendono le loro funzioni comunitarie di «servizio presso le donne» (CA III, 16, 1) e di intermediarie tra le donne e il vescovo. Si dice sempre che esse rappresentano lo Spirito Santo, ma «non fanno nulla senza il diacono» (CA II, 26, 6). Devono stare agli ingressi delle donne nelle assemblee (II, 57, 10). Le loro funzioni sono così riassunte: «La diaconessa non benedice e non compie nulla di ciò che fanno i presbiteri e i diaconi, ma vigila le porte e assiste i presbiteri in occasione del battesimo delle donne, per ragioni di decenza» (CA VIII, 28, 6).

A questa osservazione fa eco quella, quasi contemporanea, di Epifanio di Salamina nel Panarion (verso il 375): «Esiste nella Chiesa l’ordine delle diaconesse, ma non serve per esercitare le funzioni sacerdotali, né per affidargli qualche compito, ma per la decenza del sesso femminile, al momento del battesimo».67 Una legge di Teodosio del 21 giugno 390, revocata il 23 agosto successivo, fissava a 60 anni l’età di ammissione al ministero delle diaconesse. Il concilio di Calcedonia (can. 15) lo riportava a 40 anni vietando loro il susseguente matrimonio.68 Già nel IV secolo il genere di vita delle diaconesse si avvicina a quello delle claustrali. È detta allora diaconessa la responsabile di una comunità monastica di donne, come attesta, tra gli altri, Gregorio di Nissa.69 Ordinate badesse dei monasteri femminili, le diaconesse portano il maforion, o velo di perfezione. Sino al VI secolo, assistono ancora le donne nella piscina battesimale e per l’unzione. Benché non servano all’altare, possono distribuire la comunione alle ammalate. Quando la prassi battesimale dell’unzione del corpo fu abbandonata, le diaconesse sono semplicemente vergini consacrate che hanno emesso il voto di castità. Risiedono sia nei monasteri, sia in casa propria. La condizione di ammissione è la verginità o la vedovanza, e la loro attività consiste nell’assistenza caritativa e sanitaria alle donne.

A Costantinopoli, la più nota diaconessa nel IV secolo è Olimpia, igumena (badessa) di un monastero di donne, protetta da san Giovanni Crisostomo, la quale mise i propri beni al servizio della Chiesa. Fu «ordinata» (cheirotonein) diaconessa con tre sue compagne dal patriarca. Il can. 15 di Calcedonia (451) sembra confermare il fatto che le diaconesse sono veramente «ordinate» con l’imposizione delle mani (cheirotonia). Il loro ministero è detto leitourgia, e a esse non è più permesso di contrarre matrimonio dopo l’ordinazione.

Nel sec. VIII, a Bisanzio, il vescovo impone sempre le mani sulla diaconessa e le conferisce l’orarion o stola (i due lembi vengono sovrapposti sul davanti); le consegna un calice che ella depone sull’altare, senza far comunicare nessuno. È ordinata durante la liturgia eucaristica nel santuario come i diaconi.70 Nonostante le somiglianze dei riti di ordinazione, la diaconessa non avrà accesso né all’altare né ad alcun ministero liturgico. Tali ordinazioni riguardano soprattutto igumene (badesse) di monasteri femminili.

Precisiamo che in Occidente non troviamo tracce di diaconesse nei primi cinque secoli. Gli Statuta Ecclesiae antiqua prevedevano che l’istruzione delle donne catecumene e la loro preparazione al battesimo fossero affidate alle vedove e alle claustrali «scelte ad ministerium baptizandarum mulierum».71 Alcuni concili del IV e V secolo respingono ogni ministerium feminae72 e vietano ogni ordinazione di diaconesse.73 Secondo l’Ambrosiaster (a Roma, fine IV secolo), il diaconato femminile era appannaggio degli eretici montanisti.74 Nel VI secolo, come diaconesse si indicano talvolta donne ammesse nel gruppo delle vedove. Per evitare ogni confusione, il concilio di Epaona vieta «la consacrazione di vedove che si fanno chiamare diaconesse».75 Il II concilio di Orléans (533) decide di escludere dalla comunione le donne che avessero «ricevuto la benedizione del diaconato malgrado la proibizione dei canoni e che si fossero risposate».76 Diaconissae erano pure chiamate badesse o spose di diaconi, per analogia alle presbyterissae e perfino alle episcopissae.77

Questa rapida carrellata storica mostra che è veramente esistito un ministero di diaconesse che si è sviluppato in maniera diseguale nelle diverse parti della Chiesa. Sembra evidente che tale ministero non era inteso come il semplice equivalente femminile del diaconato maschile. Si tratta per lo meno di una funzione ecclesiale, esercitata da donne, talvolta menzionata prima del suddiacono nella lista dei ministeri della Chiesa.78 Tale ministero era conferito con un’imposizione delle mani paragonabile a quella con cui erano conferiti l’episcopato, il presbiterato e il diaconato maschile? Il testo delle Costituzioni apostoliche lo lascerebbe pensare, ma si tratta di una testimonianza quasi unica, e la sua interpretazione è oggetto di intense discussioni.79 L’imposizione delle mani sulle diaconesse dev’essere equiparata a quella compiuta sui diaconi o si situa piuttosto nella linea dell’imposizione delle mani fatta sul suddiacono e sul lettore? È difficile dirimere la questione partendo dai soli dati storici. Nei capitoli seguenti alcuni elementi saranno chiarificati e degli interrogativi resteranno aperti. In particolare, un capitolo sarà dedicato a esaminare più da vicino come la Chiesa attraverso la sua teologia e il suo magistero abbia preso coscienza della realtà sacramentale dell’ordine e dei suoi tre gradi. Ma prima conviene esaminare le cause che hanno determinato la scomparsa del diaconato permanente nella vita della Chiesa.

 

III. La scomparsa del diaconato permanente

I.I cambiamenti del ministero diaconale

A Roma, dal III secolo, i diaconi sono ognuno a capo di una delle sette regioni pastorali, mentre i presbiteri hanno un titulus (futura parrocchia) più piccolo. Sono incaricati di amministrare i beni e di dirigere i servizi di assistenza. Il concilio di Neocesarea, all’inizio del IV secolo, aveva chiesto che ogni Chiesa, quale che fosse la sua importanza numerica, non possedesse più di sette diaconi, in ricordo di At 6,1-6.1 Tale norma, ricordata ancora da Isidoro di Siviglia,2 ma poco osservata soprattutto in Oriente,3 ravvivava il prestigio dell’ordine diaconale e induceva i diaconi a lasciare ancor più le loro funzioni originali ad altri chierici. Essi troveranno una loro definizione sempre più esplicita attraverso le attribuzioni liturgiche ed entrando in conflitto con i presbiteri.

Le funzioni dei diaconi sono sempre più esercitate da altri ministri. Già nella Tradizione apostolica (13), i «suddiaconi» erano nominati «per seguire il diacono». Coloro che «seguono il diacono» sono rapidamente diventati i suoi «accoliti».4 Gli accoliti sono incaricati di portare il fermentum, particella dell’eucaristia del vescovo, ai presbiteri dei titoli urbani. E sono anche loro a portarla agli assenti. Gli «ostiari» adempiono pure una funzione anticamente affidata ai diaconi. Si può sostenere che i ministeri inferiori derivano da una redistribuzione delle funzioni diaconali.

Più precisamente la condizione del suddiacono si avvicina a quella del diacono. Verso il 400, in Oriente, il concilio di Laodicea tenta d’impedire al suddiacono di usurpare le funzioni liturgiche del diacono. Devono limitarsi a custodire le porte.5 Si vedono i suddiaconi adottare la disciplina di vita dei diaconi. I concili africani della fine del IV secolo esigono la continenza da parte dei chierici «che servono all’altare».6 I Canones in causa Apiarii (419-425) estendono tale esigenza ai suddiaconi «che hanno relazioni con i misteri sacri».7 Leone I (440-461) confermerà questa disciplina per il suddiacono.8 Leone distingue naturalmente tra sacerdotes (vescovo e presbiteri), levitae (diaconi e suddiaconi) e clerici (gli altri ministri).9

Già Cipriano aveva dovuto ricordare che i diaconi sono stati istituiti dagli apostoli e non dal Signore stesso.10 I diaconi dovevano, in alcuni luoghi, essere tentati di sostituirsi ai presbiteri. Il concilio di Arles (314) ricorda loro che non possono offrire l’eucaristia (can. 15) e che devono ai presbiteri l’onore a essi spettante (can. 18). Nicea vieta loro di dare la comunione ai presbiteri, o di riceverla prima dei vescovi. Devono ricevere la comunione dal vescovo o da un presbitero e dopo di loro. Non devono sedere tra i preti. «I diaconi restino nei limiti delle loro attribuzioni, sapendo che sono i servi del vescovo e che si trovano in un grado inferiore ai presbiteri» (can. 19).11

Verso il 378, l’anonimo Ambrosiaster, composto a Roma, attesta la tensione persistente tra diaconato e presbiterato.12 Girolamo rincara la dose: i diaconi non sono superiori ai preti!13 I presbiteri esercitano sempre più le funzioni riservate ai diaconi, mentre invece ricevono responsabilità sempre più autonome nei tituli urbani e nelle parrocchie rurali. I diaconi, che hanno voluto esercitare funzioni liturgiche e didattiche riservate ai presbiteri, ne subiscono il contraccolpo: subordinati ai presbiteri, il loro vincolo diretto con il vescovo si attenua, e finiscono col non avere più una funzione specifica. Il clero della Chiesa dell’Impero dimentica sempre più la sua funzione di servizio e favorisce una concezione sacrale del sacerdozio, verso il quale tendono tutti i gradi del cursus. I diaconi sono i primi a subirne le conseguenze.

Verso la fine del V secolo, il pensiero dello pseudo-Dionigi comincia a esercitare un influsso duraturo sia in Oriente sia in Occidente. Nell’universo gerarchizzato di Dionigi, celeste ed ecclesiastico, gli esseri ricevono la loro determinazione e la loro funzione dall’ordine nel quale sono inseriti. La gerarchia ecclesiastica comporta due triadi. La prima distingue l’ordine dei gerarchi o vescovi, l’ordine dei preti e l’ordine dei «liturghi» o ministri. Quest’ultimo comprende gli ordini ecclesiastici che vanno dal diacono all’ostiario. Il diaconato non ha più una specificità in rapporto agli altri ordini inferiori ai preti.14

Sempre verso la fine del V secolo, il cursus clericale è definito in funzione delle attribuzioni liturgiche, così come l’esigenza della continenza per coloro che servono nel santuario o che se ne avvicinano. Per Leone I l’ideale, prima di accedere al sacerdozio e all’episcopato, è percorrere tutti i gradi del cursus rispettando intervalli convenienti.15 Il numero e la denominazione dei gradi (gradus) sono fluttuanti. Erano otto a Roma al tempo del papa Cornelio.16 Nel V secolo, non sono più citati né l’ostiario né l’esorcista.17 L’autore del De septem ordinibus dell’inizio del V secolo parla di fossori, ostiari, lettori, suddiaconi, diaconi, preti, vescovi.18 Gli Statuta Ecclesiae antiqua, pure composti nel Sud della Gallia, verso il 480, ripropongono una lista di otto officiales Ecclesiae che ricevono una ordinatio: vescovo, presbitero e diacono ricevono un’imposizione delle mani, i candidati agli ordini inferiori (suddiacono, accolito, esorcista, lettore, ostiario) sono stabiliti con un rito di consegna degli strumenti.19 Così le funzioni un tempo autonome ed effettive sono diventate le tappe di un cursus verso il sacerdozio. Il Sacramentario di Verona (verso il 560-580) contiene una preghiera di «consacrazione» per il vescovo e il presbitero, e una preghiera di «benedizione» per il diacono. Quest’ultimo è ordinato essenzialmente in vista del servizio liturgico; deve essere un esempio di castità.20

La progressione nel cursus clericale si fa ancora spesso per saltum. A Roma, nel secolo IX, il suddiaconato è il solo passaggio obbligatorio del cursus prima dell’accesso alle funzioni superiori. Tutti i papi tra il 687 e l’891 sono stati suddiaconi. Cinque altri erano diventati diaconi prima di essere elevati all’episcopato, nove sono passati dal suddiaconato al presbiterato e poi all’episcopato.

Una delle antiche competenze dei diaconi, la gestione dei beni della comunità, sfugge loro ugualmente. Il concilio di Calcedonia (451) sanziona tale evoluzione: ogni vescovo affiderà tale compito a un economo scelto «tra il proprio clero» (can. 26), non necessariamente tra i diaconi. L’assistenza ai poveri è spesso assicurata dai conventi. Sotto Gregorio Magno, il vasto patrimonio di san Pietro è amministrato da difensores o da notarii che sono clericalizzati, vale a dire almeno tonsurati.

In Oriente, il concilio bizantino In Trullo del 692 si interroga sul modello di At 6,1-6. I sette – osserva – non erano né diaconi né presbiteri né vescovi. Si tratta di persone «incaricate di amministrare le necessità comuni dell’assemblea di allora (…). Sono un esempio di carità» (can. 7).21 Alla fine del IX secolo, in Oriente, i diaconi formano sempre un ordine permanente di chierici, ma soltanto per le necessità liturgiche. Il rito bizantino conoscerà due gradi preparatori ai ministeri sacri: lettorato (o cantore) e suddiaconato, conferiti con una chirotesia, obbligatoria prima del diaconato.22 Ma il suddiaconato è spesso conferito insieme con il lettorato o immediatamente prima del diaconato. Secondo il rituale delle Costituzioni apostoliche sempre in vigore in Oriente, l’ammissione agli ordini inferiori del suddiaconato e del lettorato si fa con l’imposizione delle mani e la consegna degli strumenti. Anche in Occidente, l’attività dei diaconi è praticamente ridotta alle funzioni liturgiche.23 Quando si creano parrocchie rurali, i concili insistono perché siano dotati di un prete. Non pensano di chiamare dei diaconi.24

A partire dal X secolo, nel Sacro impero almeno, la regola è l’ordinazione per gradum. Il documento di riferimento è il Pontificale romano-germanico,25 composto a Magonza verso il 950. Esso si colloca senza rottura di continuità nella tradizione degliordines romani dei secoli precedenti,26 pur aggiungendo numerosi elementi del rituale germanico. L’ordinazione del diacono comporta la consegna dell’evangeliario, segno della sua missione di proclamare liturgicamente il Vangelo. Il diacono vi appare più vicino al suddiacono che al prete. Quest’ultimo è l’uomo dell’eucaristia; il diacono lo assiste all’altare. Tale rituale fu introdotto a Roma dalla volontà riformatrice degli imperatori germanici della fine del X secolo. Roma si allineò al cursus clericale per gradum praticato nell’Impero. A partire da quel momento la storia dei riti di ordinazione attesta una perfetta continuità.27 I concili Lateranense I (1123), can. 7, e Lateranense II (1139), can. 6, privano del loro ufficio i chierici che, a partire dal suddiaconato incluso, si sposassero. Il Lateranense II, can. 7, stabilisce che un tale matrimonio sarebbe nullo.28 Da allora, la Chiesa latina in genere non ordina più se non uomini celibi.

I testi patristici e liturgici del primo millennio menzionano tutti l’ordinazione del vescovo, del presbitero e del diacono, ma non si pongono ancora l’interrogativo esplicito sulla sacramentalità di ognuna di tali ordinazioni.

La storia dei ministeri mostra che le funzioni sacerdotali hanno avuto la tendenza ad assorbire le funzioni inferiori. Quando il cursus clericale si è stabilizzato, ogni grado possiede competenze supplementari in rapporto al grado inferiore: ciò che fa un diacono lo può fare anche un presbitero. Al vertice della gerarchia, il vescovo può esercitare la totalità delle funzioni ecclesiastiche. Questo fenomeno di concentrazione delle competenze e di sostituzione delle funzioni inferiori con quelle superiori, la frammentazione delle competenze originarie dei diaconi in molte funzioni subalterne clericalizzate, l’accesso alle funzioni superiori per gradum spiegano come il diaconato, in quanto ministero permanente, abbia perduto la sua ragion d’essere. Gli rimanevano soltanto i compiti liturgici esercitati ad tempus dai candidati al sacerdozio.

II.Verso la scomparsa delle diaconesse

Dopo il X secolo le diaconesse non sono più nominate se non in connessione con istituzioni di beneficenza. Un autore giacobita di quel tempo constata: «Nei tempi antichi si ordinavano diaconesse; esse avevano la funzione di occuparsi delle donne adulte, perché non si scoprissero davanti al vescovo. Ma quando la religione si diffuse e si stabilì di amministrare il battesimo ai bambini, tale funzione fu abolita».29 Troviamo la stessa constatazione nel Pontificale del patriarca Michele di Antiochia (1166-99).30 Commentando il can. 15 del concilio di Calcedonia, Teodoro Balsamon, alla fine del XII secolo, osserva che «quello che tratta tale canone è completamente caduto in desuetudine. Infatti, oggi non si ordinano più diaconesse, benché si chiamino abusivamente diaconesse quelle che fanno parte delle comunità di ascete…».31 La diaconessa è diventata una monaca di clausura. Vive nei monasteri che non praticano opere di diaconia nel settore dell’istruzione o dell’assistenza negli ospedali o nei servizi parrocchiali.

La presenza di diaconesse è ancora attestata a Roma alla fine del secolo VIII. Mentre gli antichi rituali romani ignoravano le diaconesse, il sacramentario Hadrianum, inviato dal papa a Carlomagno e da questi diffuso in tutto il mondo franco, contiene una Oratio ad diaconam faciendam. Si tratta in realtà di una benedizione posta in appendice tra altri riti di prima istituzione. I testi carolingi faranno sovente l’amalgama tra diaconesse e badesse. Il concilio di Parigi dell’829 vieta, in genere, alle donne ogni funzione liturgica.32 Le Decretali pseudo-isidoriane non menzionano le diaconesse. Un pontificale bavarese della prima metà del IX secolo pure le ignora.33 Un secolo dopo, nel Pontificale romano-germanico di Magonza, si ritrova, posta dopo l’ordinatio abbatissae, tra la consecratio virginum e la consecratio viduarum, la preghiera Ad diaconam faciendam. Non si tratta qui, di nuovo, che di una benedizione accompagnata dalla consegna della stola e del velo da parte del vescovo, dell’anello nuziale e della corona. Come le vedove, la diaconessa promette la continenza. È l’ultima menzione della «diaconessa» nei rituali latini. Infatti, il Pontificale di Guillaume Durand, della fine del XIII secolo, non parla più delle diaconesse se non al passato.34

Nel Medioevo, le religiose ospedaliere e insegnanti svolgevano di fatto funzioni di diaconia senza essere per ciò stesso ordinate in vista di tale ministero. Il titolo, senza corrispondere a un ministero, rimane attribuito a donne che sono istituite vedove o badesse. Sino al secolo XIII, alcune badesse sono talora chiamate diaconesse.

 

  1. La sacramentalità del diaconato dal XII al XX secolo

La sacramentalità del diaconato è un problema che rimane implicito nelle testimonianze bibliche, patristiche e liturgiche da noi sin qui esposte. Occorre ora vedere come la Chiesa ne ha preso coscienza esplicita dapprima in un periodo in cui, salvo rare eccezioni, il diaconato non costituisce che una tappa verso il presbiterato.

I.Nella prima scolastica

Benché la «sacramentalità» possa avere un significato ampio e generico, in senso stretto essa si identifica con i sette sacramenti (segni visibili ed efficaci della grazia), tra i quali si trova quello dell’«ordine». E, all’interno dell’ordine, si possono distinguere diversi «ordini» o «gradi», il cui numero offre qualche oscillazione (tra sette e nove). Il diaconato e il presbiterato figurano sempre tra gli ordines sacri del sacramento, e si comincia a includervi anche il suddiaconato a causa del celibato; l’episcopato ne è escluso nella maggioranza dei casi.1

Secondo Pietro Lombardo († 1160),2 il diaconato è un ordo o gradus officiorum (il 6°). Ora, benché tutti gli ordines siano per lui spirituales et sacri, egli sottolinea l’eccellenza del diaconato e del presbiterato, i soli che esistevano nella Chiesa primitiva e che rispondono al precetto apostolico, mentre gli altri sono stati istituiti dalla Chiesa nel corso del tempo. Eccellenza di cui non gode l’episcopato, poiché non appartiene agli ordines sacramentali, ma piuttosto all’ambito delle dignità e degli uffici.3

II.Da san Tommaso d’Aquino († 1273) a Trento (1563)

  1. L’affermazione della sacramentalità

Nella dottrina di san Tommaso sul diaconato4 è inclusa la sua sacramentalità in quanto esso appartiene all’ordine, uno dei sette sacramenti della legge nuova. Ciascuno dei diversi ordini costituisce in un certo modo una realtà sacramentale; ciò nonostante solamente tre (prete, diacono e suddiacono) possono considerarsi rigorosamente ordines sacri a motivo del loro rapporto particolare con l’eucaristia.5 Ma dalla sua sacramentalità non bisogna concludere che il sacerdozio e il diaconato siano sacramenti diversi; la distinzione propria degli ordini non corrisponde a un tutto universale o integrale, ma a una totalità potestativa.6

Il modo di articolare tale unità e unicità del sacramento dell’ordine, nei suoi diversi gradi, ha a che vedere con il loro riferimento all’eucaristia sacramentum sacramentorum.7 In forza di questo, i diversi ordini hanno bisogno di una consacrazione sacramentale secondo il genere di potere in rapporto all’eucaristia. I preti ricevono, con l’ordinazione, il potere di consacrare, mentre i diaconi ricevono un potere di servire i preti nell’amministrazione dei sacramenti.8

Il rapporto con l’eucaristia diventa un criterio decisivo per non far pensare che a ciascun ordine spetti l’amministrazione di uno specifico sacramento. Lo stesso criterio serve pure a escludere dagli ordini sacramentali il salmista e il cantore. Ma tale criterio è utilizzato anche per escludere l’episcopato dalla sacramentalità.9 Ciò nonostante, benché san Tommaso rifiuti all’episcopato qualche tipo di potere superiore a quello del presbitero in rapporto al verum corpus Christi, egli considera, in qualche modo, l’episcopato anche un ordo in ragione dei poteri che esso detiene sul corpus mysticum.10

Poiché il diaconato è un sacramento, siamo davanti a un ordo che imprime il carattere, dottrina che san Tommaso applica al battesimo, alla cresima e all’ordine. Con un’evoluzione nel suo pensiero: quella che va dalla definizione a partire dal sacerdozio di Cristo soltanto del carattere dell’ordine (In IV Sent.) sino alla definizione di tutta la dottrina del carattere (STh).11

A proposito del diaconato, egli ne spiega tutte le potestates, in rapporto alla dispensatio dei sacramenti, come qualcosa che sembra situarsi piuttosto nell’ambito della «liceità», e non in quello di una «capacitazione» [l’esser messo in grado di] radicale più in relazione con la «validità» delle rispettive funzioni.12 A sua volta, in STh III q67 a1, egli si chiede se evangelizzare e battezzare fanno parte dell’ufficio diaconale e risponde che ai diaconi non appartiene quasi ex proprio officio alcuna amministrazione diretta dei sacramenti, e tanto meno qualche compito in relazione con il docere, solamente con il cathechizare.13

  1. La problematica della sacramentalità

Durando di San Porciano († 1334) rappresenta una linea dottrinale che ricompare di tanto in tanto sino ai nostri giorni, secondo la quale la sola ordinazione sacerdotale è «sacramento»; gli altri ordini, diaconato incluso, non sono che «sacramentali».14 Ecco le ragioni della sua posizione:

  1. a) la distinzione, in rapporto all’eucaristia, tra il potere di consacrare, esclusivo dell’ordine sacerdotale (che si deve considerare come sacramento) e le azioni dispositive, proprie agli altri ordini (da considerare come semplici sacramentali);
  2. b) allo stesso modo che nel battesimo c’è una «potestas ad suscipiendum sacramenta»; soltanto con il sacerdozio si accorda una «potestas ordinis ad conficiendum vel conferendum ea», la quale non si concede a nessuno degli ordini inferiori al sacerdozio, neppure al diaconato;
  3. c) l’ordinazione sacerdotale concede un potere ad posse e non ad licere, in modo che l’ordinato può, in realtà, fare qualcosa che non poteva fare prima dell’ordinazione; il diaconato, invece, accorda la capacità di fare licite qualcosa che in effetti egli poteva fare prima, benché in maniera illecita, e per questo si può considerare come un’istituzione o una deputazione ecclesiale per esercitare determinati uffici;
  4. d) è anche l’unità del sacramento dell’ordine e la valutazione del sacerdozio come pienezza di questo sacramento che lo esige, in modo che, nel caso contrario, difficilmente si potrebbe conservare l’intenzione di ciò che san Tommaso diceva sull’unità e l’unicità del sacramento dell’ordine;15
  5. e) la distinzione tra sacramentum e sacramentalia non impedisce, tuttavia, a Durando di ritenere che ognuno degli ordini imprima un «carattere», distinguendo a sua volta tra una deputatio che ha la sua origine in Dio stesso e che fa dell’ordine rispettivo un sacramentum (l’ordine del sacerdozio) e una deputatio ecclesiastica, istituita dalla stessa Chiesa, la quale fa sì che i rispettivi ordini siano soltanto sacramentalia (tutti gli altri ordini). In quest’ultimo senso, si può dire che il diaconato imprime il carattere; il dubbio o la discussione riguarda il momento in cui ciò avviene, poiché per alcuni ciò avverrebbe «in traditione libri evangeliorum» (opinione rifiutata da Durando) e, per altri, «in impositione manuum» (opinione che sembra faccia sua).16
  6. La dottrina di Trento (1563)

Il concilio di Trento ha voluto definire dogmaticamente l’ordine come sacramento; il senso delle sue affermazioni dottrinali non lascia alcun dubbio al riguardo. Tuttavia, non è evidente in quale misura si debba considerare inclusa in questa definizione dogmatica la sacramentalità del diaconato. È un problema controverso sino ai nostri giorni, benché coloro che la rimettono in discussione siano una minoranza. Perciò, occorre interpretare le affermazioni di Trento.

Di fronte alle negazioni dei riformatori, Trento dichiara l’esistenza di una hierarchia in Ecclesia ordinatione divina (e ciò conduce a rifiutare l’affermazione secondo cui «omnes christianos promiscue Novi Testamenti sacerdotes esse») e ugualmente quella di una hierarchia ecclesiastica (e ciò conduce alla distinzione tra i diversi gradi all’interno del sacramento dell’ordine).17

È nella teologia generale del sacramento dell’ordine che si devono inserire i riferimenti di Trento al diaconato, di cui esso fa esplicitamente menzione. Non è del tutto certo però che le affermazioni dogmatiche di Trento sulla sacramentalità e sul carattere sacramentale del sacerdozio (al quale esso si riferisce direttamente) comportino anche un’intenzionalità conciliare di definire dogmaticamente la sacramentalità del diaconato.

Secondo Trento, i diaconi si trovano direttamente menzionati nel NT, benché non si dica che siano stati istituiti direttamente da Cristo Salvatore. In accordo con il modo di considerare gli altri ordini, il diaconato è concepito anche come aiuto per esercitare «dignius et maiore cum veneratione ministerium tam sancti sacerdotii» e per servire «ex officio» il sacerdozio (non si dice che esso sia «ad ministerium episcopi»); inoltre, appare come una tappa per accedere al sacerdozio (non c’è nessuna menzione esplicita di un diaconato permanente).18

Quando Trento definisce dogmaticamente che l’ordo o sacra ordinatio è «vere sacramentum»,19 non si fa menzione esplicita del diaconato. Questo è incluso tra gli ordines ministrorum.20 Perciò, se si dovesse applicare anche al diaconato l’affermazione dogmatica della sacramentalità, si dovrebbe forse procedere allo stesso modo per gli altri ordines ministrorum, ma questo sembra eccessivo e ingiustificato.

Qualcosa di simile si può dire relativamente alla dottrina del «carattere sacramentale».21 Se si tiene conto delle espressioni del concilio, non c’è alcun dubbio che Trento si riferisca esplicitamente e direttamente ai «sacerdoti del NT», per distinguerli chiaramente dai «laici». Dei «diaconi» non si fa alcuna menzione diretta o indiretta; sembra dunque difficile accordare a questo testo di Trento l’intenzione di stabilire dogmaticamente la dottrina del carattere per il diaconato.

Un’attenzione particolare merita il can. 6 («si quis dixerit in Ecclesia catholica non esse hierarchiam, divina ordinatione institutam, quae constat ex episcopis, presbyteris et ministris, a. s.».22 a causa delle difficoltà dell’interpretazione corretta del senso del termine ministris: diaconi o diaconi e gli altri ministri o l’insieme di tutti gli altri ordini? Sino alla vigilia dell’approvazione (14 luglio 1563), era detto nel testo «et aliis ministris». Quel giorno, tenendo conto delle petizioni di un gruppo spagnolo, si è cambiata l’espressione utilizzata (aliis ministris), eliminando il termine aliis. Ma le ragioni e la portata di tale cambiamento non sono molto chiare.23

Come interpretare allora il termine ministris e la loro inclusione nella hierarchia? L’eliminazione di aliis significherebbe, secondo alcuni interpreti, che la divisione all’interno della gerarchia ecclesiastica avrebbe luogo tra sacerdotes (vescovi e presbiteri), da un lato, e ministri, dall’altro; sopprimendo aliis si sarebbe voluto accentuare ancora una volta che i vescovi e i presbiteri non sono «nudi ministri», ma «sacerdotes Novi Testamenti». La storia del testo, alla luce delle formulazioni anteriori, sembrerebbe suggerire una comprensione ampia di ministri, termine che includerebbe «diaconos caeterosque ministros» e corrisponderebbe a una divisione tripartita della gerarchia («praecipue episcopi, deinde praesbyteri, diaconi et alii ministri»). Ma non si può dimenticare che, secondo altri autori, la soppressione del termine aliis equivarrebbe all’eliminazione del suddiaconato e degli altri ordini minori dalla gerarchia «divina ordinatione instituta», un’espressione che, a sua volta, non è esente da polemica interpretativa.24

In conclusione, che se ne dia un’interpretazione esclusiva o inclusiva, non si può mettere in dubbio che nel termine ministri siano inclusi i diaconi. Ma le conseguenze dogmatiche concernenti la loro sacramentalità e la loro inclusione nella gerarchia non saranno le stesse nel caso che il termine ministri si riferisca soltanto a essi o nel caso includa anche gli altri ordini.

III.Le sfumature della teologia dopo Trento

Dopo il concilio di Trento, nella teologia del XVI e XVII secolo, l’opinione maggioritaria sostiene la sacramentalità del diaconato, mentre è minoritaria la posizione di coloro che la mettono in questione o la negano. Tuttavia, la forma con cui si difende tale sacramentalità è piena di sfumature e in genere la si considera come un punto che non è stato definito dogmaticamernte da Trento, e la cui dottrina è ripresa dal Catechismo romano quando descrive le funzioni del diacono.25

Così, per esempio, Francisco de Vitoria († 1546) considera probabilissima l’opinione secondo cui «solum sacramentum est sacerdotium» e tutti gli altri ordini sono sacramentali. Domenico de Soto († 1560), a sua volta, benché sostenitore della sacramentalità sia del diaconato sia del suddiaconato, è del parere che chi segue Durando non debba essere censurato.26

Roberto Bellarmino († 1621) descrive bene qual è lo status quaestionis in quel momento. Stabilisce come principio fondamentale, ammesso da tutti i teologi cattolici, la sacramentalità dell’ordine («vere ac proprie sacramentum novae legis»), negata dagli eretici (protestanti). Ma, circa la sacramentalità di ciascuno degli ordini, crede necessario fare una distinzione, perché, se c’è unanimità sulla sacramentalità del presbiterato, non ce n’è sull’insieme degli altri ordini.27

Bellarmino si dichiara chiaramente in favore della sacramentalità dell’episcopato («ordinatio episcopalis sacramentum est vere ac proprie dictum»), in disaccordo con gli antichi scolastici che la negavano, e considera la sua affermazione un’assertio certissima, fondata sulla sacra Scrittura e sulla Tradizione. Inoltre, parla di un carattere episcopale distinto e superiore al carattere presbiterale.

Quanto alla dottrina della sacramentalità del diaconato, Bellarmino l’ha fatta sua e la considera molto probabile; però, non la prende come una certezza ex fide, poiché non può essere dedotta con evidenza né dalla sacra Scrittura né dalla Tradizione né da alcuna determinazione esplicita da parte della Chiesa.28

Bellarmino è anche favorevole alla sacramentalità del suddiaconato fondandosi per questo sulla dottrina del carattere, sul celibato e sull’opinione comune dei teologi, benché riconosca che tale dottrina non sia così certa come quella del diaconato.29 Ancora meno certa secondo lui è la sacramentalità degli altri ordini minori.

IV.La sacramentalità del diaconato nel concilio Vaticano II

Per quanto riguarda i diaconi o il diaconato nei testi del concilio Vaticano II (Sacrosanctum concilium, n. 86; Lumen gentium, nn. 20, 28, 29, 41; Orientalium Ecclesiarum, n. 17; Christus Dominus, n. 25; Ad gentes, nn. 15, 16) si presuppone la sacramentalità per le sue due modalità (permanente o transitorio). Talvolta è semplicemente affermata, in modo rapido, indiretto o debole. Nel suo insieme, il Vaticano II acquisisce l’opinione teologica maggioritaria, ma senza andare oltre. Il concilio non ha neppure dissipato alcune incertezze espresse durante i dibattiti.

  1. Nei dibattiti conciliari

La sacramentalità del diaconato è un tema affrontato in diversi interventi del secondo periodo (1963), il cui risultato si traduce in una maggioranza favorevole a tale sacramentalità, soprattutto tra quanti sostenevano l’instaurazione del diaconato permanente; questo non era il caso dei suoi avversari.30

Nella relatio della Commissione dottrinale si offrono alcune note esplicative del testo, interessanti per la sua interpretazione. Si dà la ragione esegetica di non menzionare direttamente At 6,1-631 e si spiega anche la menzione prudente della sacramentalità del diaconato come il risultato di non voler dare l’impressione di condannare chi la mette in questione.32 Effettivamente, nel dibattito conciliare, non c’era unanimità circa la natura sacramentale del diaconato.

Hanno un interesse interpretativo pure le sfumature introdotte nella sintesi della discussione. Tra gli argomenti in favore della restaurazione, si fa dapprima menzione della natura sacramentale del diaconato, di cui non si deve privare la Chiesa. Tra gli argomenti contro la restaurazione, il più importante è indubbiamente quello del celibato. Ma se ne aggiungono altri, come la necessità o meno del diaconato per compiti che possono essere esercitati da laici. E qui emergono interrogativi: se si tratti di tutti i compiti o solamente di alcuni; se tali compiti abbiano un carattere regolare o straordinario; se vi sia o meno la privazione di grazie speciali legate alla sacramentalità del diaconato; se si possano immaginare influssi negativi o positivi per l’apostolato laico; se convenga riconoscere ecclesialmente, con l’ordinazione, i compiti diaconali che di fatto sono già esercitati; se si possa considerare la possibile condizione di «ponte» tra l’alto clero e il popolo, che sarebbe propria dei diaconi, soprattutto di quelli sposati.33

  1. Nei testi del concilio Vaticano II

Nella Lumen gentium (n. 29), la proposizione secondo la quale si impongono le mani ai diaconi «non ad sacerdotium, sed ad ministerium» diventerà un riferimento chiave per la comprensione teologica del diaconato. Tuttavia molti interrogativi sono rimasti aperti sino ai nostri giorni per le ragioni seguenti: la soppressione del riferimento al vescovo nella formulazione accettata,34 l’insoddisfazione di alcuni di fronte alla sua ambiguità,35 l’interpretazione data dalla Commissione36 e la portata della distinzione stessa tra sacerdotium e ministerium.

Nella Lumen gentium (n. 28a), il termine ministerium è usato, a sua volta, in un duplice senso: a) per riferirsi al ministero dei vescovi, che in quanto successori degli apostoli partecipano alla «consacrazione» e alla «missione» ricevuta da Cristo dal Padre, e lo trasmettono in gradi diversi e a diversi soggetti, senza che si menzionino esplicitamente i diaconi;37 b) per riferirsi al «ministero ecclesiastico» nel suo insieme, che è di istituzione divina nei suoi diversi ordini comprendenti coloro che sono chiamati, dall’antichità, vescovi, presbiteri e diaconi.38 Nella nota rispettiva, il Vaticano II fa riferimento a Trento, sessione 23, c. 2 e can. 6.39 Effettivamente, si può osservare qui un’identica prudenza nelle espressioni che si riferiscono alla diversità dei gradi: «ordinatio divina» (Trento), «divinitus institutum» (Vaticano II); «ab ipso Ecclesiae initio» (Trento), «ab antiquo» o «inde ab apostolis» secondo Ad gentes, n. 16 (Vaticano II; EV 1/1140).40

L’affermazione riferita più direttamente alla sacramentalità del diaconato si trova nella Lumen gentium (n. 29a; EV 1/359): «Gratia enim sacramentali roborati, in diaconia liturgiae, verbi et caritatis populo Dei, in communione cum episcopo eiusque presbyterio, inserviunt»; e anche in Ad gentes (n. 16; EV 1/1140): «Ut ministerium suum per gratiam sacramentalem diaconatus efficacius expleant». L’espressione gratia sacramentalis è prudente, propria di un inciso, molto più sfumata della formula «ordinazione sacramentale», usata nel progetto precedente della Lumen gentium del 1963. Perché tale prudenza nelle espressioni usate alla fine? La Commissione dottrinale si riferisce al fondamento tradizionale di ciò che è affermato e alla preoccupazione di evitare l’impressione che si condannino coloro che avevano dubbi su questo argomento.41

  1. La sacramentalità del diaconato negli sviluppi postconciliari
  2. Dapprima, si deve menzionare il testo che attua i documenti conciliari, cioè il motu proprio di Paolo VI, Sacrum diaconatus ordinem (1967). Riguardo alla natura teologica del diaconato, si prolunga ciò che il Vaticano II ha detto sulla gratia del diaconato, aggiungendo però un riferimento al «carattere» indelebile (assente nei testi del Concilio) e lo si intende come un servizio «stabile».42

In quanto grado dell’ordine, dà capacità di esercitare compiti che appartengono per la maggiore parte all’ambito liturgico (otto degli 11 menzionati). In alcune espressioni, essi appaiono come funzioni di supplenza o di delega.43 Perciò, non si capisce molto bene in che senso il «carattere» diaconale conferisca la capacità per alcune competenze o poteri, che potrebbero essere esercitati soltanto sulla base di una ordinazione previa. Infatti, vi si accederebbe anche attraverso un’altra via (per delega o supplenza, e non a causa del sacramento dell’ordine).

  1. La tappa più recente compiutasi nel motu proprio di Paolo VI Ad pascendum (1972) si riferisce all’instaurazione del diaconato permanente (senza escluderlo come tappa transitoria) in quanto «ordine intermedio» tra la gerarchia superiore e il resto del popolo di Dio. Circa la sacramentalità, oltre che considerare questo medius ordo come «signum vel sacramentum ipsius Christi Domini, qui non venit ministrari, sed ministrare», il documento ne presuppone la sacramentalità e si limita a ripetere espressioni già note, come sacra ordinatio o sacrum ordinem.44
  2. Facendo seguito ad alcune posizioni già prese prima del Vaticano II, alcuni autori anche dopo il Concilio hanno manifestato più esplicitamente e in modo argomentato i loro dubbi nei confronti della sacramentalità del diaconato. Le loro ragioni sono diverse. J. Beyer (1980) presenta, anzitutto, la sua analisi dei testi conciliari in cui il silenzio sulla distinzione tra potere di «ordine» e di «giurisdizione» gli sembra evitare piuttosto che risolvere i problemi non risolti.45 Così pure, la fluttuazione del senso che si può dare al termine ministerium e il contrasto tra questo e il sacerdotium. E ancora, la sua valutazione della prudenza conciliare non soltanto come preoccupazione di evitare condanne, ma anche come risultato delle oscillazioni dottrinali.46 Perciò occorre chiarire ulteriormente tale problema: «Estne diaconatus pars sacerdotii sicut et episcopatus atque presbyteratus unum sacerdotium efficiunt?». La domanda non trova soluzione col ricorso al «sacerdozio comune» dei fedeli ed escludendo i diaconi dal sacerdozio «sacrificatore» (cf. Philips). Secondo la Tradizione, il sacerdozio ministeriale è «unum» e «unum sacramentum». Se è solamente questo sacerdozio sacramentale che rende capace di agire in persona Christi, con un’efficacia ex opere operato, allora sarà difficile chiamare «sacramento» il diaconato, perché non è istituito per compiere un qualche gesto in persona Christi e con un’efficacia ex opere operato.

Bisogna ugualmente ricercare con più cura ciò che è stato detto dal concilio Tridentino e anche il grado normativo dei suoi riferimenti al diaconato.47 Si devono ancora rileggere con attenzione gli atti del Vaticano II, l’evoluzione degli schemi, i diversi interventi e la relatio della rispettiva Commissione. Da tale relatio si può concludere che non si è trovata veramente la soluzione delle difficoltà relative ai punti seguenti: a) la fondazione esegetica dell’istituzione dei diaconi (si rinuncia ad At 6,1-6 perché è oggetto di discussione e ci si limita alla semplice menzione dei diaconi in Fil 1,1 e 1Tm 3,8-12); b) la giustificazione teologica della natura sacramentale del diaconato, con l’intento di ristabilirne la modalità permanente.

In conclusione: se il Vaticano II ha parlato con prudenza ed ex obliquo della natura sacramentale del diaconato, non è stato solamente a causa della preoccupazione di non condannare nessuno, ma piuttosto a motivo dell’«incertitudo doctrinae».48 Dunque, per assicurare la natura sacramentale non basta né l’opinione maggioritaria dei teologi (c’era anche relativamente al suddiaconato), né la sola descrizione del rito dell’ordinazione (che occorre chiarire alla luce di altre fonti), né la sola imposizione delle mani (che può essere di natura non sacramentale).

  1. Nel nuovo Codex iuris canonici del 1983, si parla del diaconato nella prospettiva della sua sacramentalità, introducendo alcuni sviluppi che meritano un commento.

Così nei cann. 1008-1009. Il diaconato è uno dei tre ordini, e il CIC sembra applicare a esso nella sua integrità la teologia generale del sacramento dell’ordine.49 Se tale applicazione è valida, ne consegue che il diaconato è una realtà sacramentale, di istituzione divina, che fa dei diaconi sacri ministri (nel CIC i battezzati ordinati), che imprime in essi un «carattere indelebile» (si riprende ciò che è stato detto da Paolo VI) e che, a motivo della loro consacrazione e deputazione («consecrantur et deputantur»), li rende capaci di esercitare in persona Christi capitis e nel grado che loro corrisponde («pro suo quisque gradu») i compiti di insegnare, di santificare e di governare, cioè le funzioni proprie di coloro che sono chiamati a condurre il popolo di Dio.

Tale integrazione del diaconato nella teologia generale del sacramento dell’ordine suscita alcuni interrogativi: si può sostenere teologicamente che il diacono, anche se pro gradu suo, eserciti i «munera docendi, sanctificandi et regendi» in persona Christi capitis come il vescovo e il presbitero? Non è questo qualcosa di particolare e di esclusivo di colui che ha ricevuto l’ordinazione sacramentale e il potere conseguente per «conficere corpus et sanguinem Christi», cioè per consacrare l’eucaristia, la qual cosa in nessun modo appartiene al diacono? Si deve intendere l’espressione in persona Christi capitis secondo il CIC in un senso più vasto, perché si possa applicare anche alle funzioni diaconali? Come interpretare allora l’affermazione conciliare secondo la quale il diacono è «non ad sacerdotium, sed ad ministerium»? Si può considerare come un effetto della sacramentalità del diaconato il compito di «pascere populum Dei»? Discutere i suoi «poteri» non condurrebbe a un vicolo cieco?

È del tutto logico che il CIC si occupi specialmente e ampiamente delle facoltà proprie del diacono. Ciò che fa in molti canoni.50 Nei cann. 517, 2 e 519 si citano i diaconi a proposito della cooperazione con il parroco in quanto «pastor proprius» e della possibilità di concedere loro una partecipazione all’esercizio della cura pastoralis (can. 517, 2). Tale possibilità di partecipare all’esercizio della cura pastoralis paroeciae (attribuibile in primo luogo al diacono, benché possa essere anche concessa ai laici) pone il problema della capacità del diacono di assumere la direzione pastorale della comunità e prolunga con sfumature diverse ciò che era già acquisito nella Ad gentes (n. 16), e in Sacrum diaconatus ordinem (V, 22; EV 2/1392): se qui si parlava direttamente di regere, nel can. 517, 2 si parla in modo più sfumato di «participatio in exercitio curae pastoralis». In ogni caso, in relazione alla possibilità aperta dal canone 517, presentata come un’ultima soluzione, si deve pensare con maggiore precisione alla partecipazione reale del diacono, a motivo della sua ordinazione diaconale, alla «cura animarum» e al compito di «pascere populum Dei».51

  1. Il recente Catechismus catholicae Ecclesiae (CCE), nella sua redazione definitiva del 1997, sembra parlare in modo più deciso a favore della sacramentalità del diaconato.

Afferma che la potestas sacra per agire in persona Christi compete soltanto ai vescovi e ai presbiteri, mentre i diaconi detengono «vim populo Dei serviendi» nelle loro diverse funzioni diaconali (n. 875). Fa pure menzione dei diaconi quando, a proposito del sacramento dell’ordine, considera l’«ordinazione» come un «atto sacramentale» che permette di esercitare un «potere sacro», il quale procede, infine, dal solo Gesù Cristo (n. 1538).

Da una parte, sembra che secondo il CCE anche i diaconi potrebbero essere inclusi in un certo modo in una comprensione generale del sacramento dell’ordine sotto categorie sacerdotali, poiché esso li menziona da questo punto di vista insieme con i vescovi e i presbiteri nei nn. 1539-1543. D’altra parte, nella redazione definitiva del n. 1554 esso giustifica la restrizione del termine sacerdos ai vescovi e ai presbiteri, escludendo i diaconi, mantenendo però l’affermazione che costoro appartengono anche al sacramento dell’ordine (n. 1554).

Infine, l’idea dalla sacramentalità si trova rafforzata dall’attribuzione esplicita della dottrina del «carattere» ai diaconi in quanto configurazione particolare a Cristo, diacono e servo di tutti (n. 1570).

  1. Nella recente Ratio fundamentalis (1998), nella quale sono riconosciute le difficoltà per comprendere la «germana natura» del diaconato, si sostiene però con fermezza la chiarezza degli elementi dottrinali («clarissime definita», nn. 3 e 10), a motivo della prassi diaconale antica e di ciò che è stato stabilito dal Concilio.

Nessun dubbio che qui ci troviamo di fronte a un modo di parlare dell’identità specifica del diacono che offre alcune novità in relazione a quella che è stata sinora la consuetudine: il diacono ha una configurazione specifica a Cristo, Signore e servo,52 alla quale corrisponde una spiritualità segnata dallo spirito di servizio in quanto segno distintivo che con l’ordinazione rende il diacono una «icona» vivente del Cristo servo nella Chiesa (n. 11). In tal modo si giustifica la limitazione ai preti della configurazione con il Cristo, capo e pastore. Ma la configurazione con il Cristo «servo» e il «servizio» come caratteristica del ministero ordinato sono validi anche per i preti. Così non si vede bene ciò che è «specificamente diaconale» in tale servizio, che trovi espressione in funzioni o «munera» (cf. n. 9) di competenza esclusiva dei diaconi a motivo della loro capacità sacramentale.

Nel suo insieme, la Ratio afferma chiaramente la sacramentalità del diaconato come pure il suo carattere sacramentale, nella prospettiva di una teologia comune del sacramento dell’ordine e del rispettivo carattere che imprime.53 Ci troviamo allora di fronte a un linguaggio deciso ed esplicito, benché non si capisca bene come ciò possa corrispondere a progressi teologici più consistenti o a una nuova o meglio giustificata fondazione.

Conclusione

La posizione dottrinale a favore della sacramentalità del diaconato si presenta ampiamente maggioritaria nell’opinione dei teologi dal secolo XII sino a oggi e si presuppone nella prassi della Chiesa e nella maggior parte dei documenti del magistero; è anche sostenuta da coloro che difendono il diaconato permanente (per la persona celibe o sposata) e costituisce un elemento che integra buona parte delle proposte in favore del diaconato per le donne.

Ciò nonostante, questa posizione dottrinale si trova di fronte problemi che occorre chiarire meglio, sia sviluppando una teologia più convincente della sacramentalità del diaconato, sia con un intervento del magistero più diretto ed esplicito, sia con un’articolazione ecclesiologica più riuscita dei diversi elementi; il cammino che è stato seguito circa la sacramentalità dell’episcopato può essere un riferimento decisivo e istruttivo. Tra i problemi che richiedono un approfondimento teologico o uno sviluppo ulteriore si trovano i seguenti: a) il grado normativo della sacramentalità del diaconato così come sarebbe stato fissato dagli interventi dottrinali del magistero, soprattutto nei concili Tridentino e Vaticano II; b) l’«unità» e l’«unicità» del sacramento dell’ordine nella diversità dei suoi gradi; c) la portata della distinzione «non ad sacerdotium, sed ad ministerium (episcopi)»; d) la dottrina del carattere e della specificità del diaconato come configurazione a Cristo; e) i «poteri» che il diaconato concede in quanto sacramento.

È un approccio senza dubbio troppo stretto ridurre la sacramentalità al problema delle potestates; l’ecclesiologia offre prospettive più ampie e più ricche. Ma nel caso del sacramento dell’ordine, non si può omettere tale problema evocando la strettezza ricordata. Gli altri due gradi dell’ordine, l’episcopato e il presbiterato, danno un potere, a motivo dell’ordinazione sacramentale, per compiti che una persona non ordinata non può (validamente) realizzare. Perché dovrebbe essere diversamente per il diaconato? La differenza risiede forse nel come dell’esercizio dei munera o nella qualità personale di colui che le realizza? Ma come renderlo teologicamente credibile? Se infatti tali funzioni possono essere esercitate da un laico, come giustificare che abbiano la loro sorgente in un’ordinazione sacramentale nuova e distinta?

A proposito dei poteri diaconali ricompaiono nuovamente problemi di carattere generale: la natura o la condizione della potestas sacra nella Chiesa, il nesso del sacramento dell’ordine con la «potestas conficiendi eucharistiam», la necessità di allargare le prospettive ecclesiologiche al di là di una visione ristretta di tale nesso.

 

  1. La restaurazione del diaconato permanente nel concilio Vaticano II

In tre luoghi il concilio Vaticano II adopera termini diversi per descrivere ciò che intende fare quando parla del diaconato come di un grado stabile della gerarchia della Chiesa. Lumen gentium (n. 29b) usa la nozione di restitutio,1 l’Ad gentes (n. 16f) quella di restauratio,2 mentre la Orientalium Ecclesiarum (n. 17) adopera il termine instauratio.3 Tutte e tre connotano l’idea di restaurare, di rinnovare, di ristabilire, di riattivare. In questo capitolo affronteremo due punti. Anzitutto è importante conoscere le ragioni per le quali il Concilio ha ripristinato il diaconato permanente, poi, in un secondo tempo, esaminare la figura che ha voluto dargli.

I.Le intenzioni del Concilio

L’idea di ristabilire il diaconato come un grado permanente della gerarchia non è nata al Vaticano II. Circolava già prima della seconda guerra mondiale, ma si è sviluppata come progetto dopo il 1945, soprattutto nei paesi di lingua tedesca.4 La sfida di rispondere alle necessità pastorali delle comunità quando i preti affrontavano il carcere, la dispersione o la morte ha condotto a una considerazione seria di tale idea. Presto diversi specialisti elaborarono studi sugli aspetti teologici e storici del diaconato.5 Alcuni uomini che pensavano a una vocazione al diaconato fondarono persino un gruppo chiamato «Comunità del diaconato».6 Una teologia rinnovata della Chiesa sorta dai movimenti biblico, liturgico ed ecumenico aprì ampiamente la strada alla possibilità di ripristinare il diaconato come un ordine stabile della gerarchia.7

Così, alla vigilia del Concilio, l’idea era vivissima in alcuni settori significativi della Chiesa e influenzò un certo numero di vescovi e di esperti durante il Concilio.

Le motivazioni che indussero il Vaticano II ad aprire la possibilità di ripristinare il diaconato permanente sono indicate principalmente nella costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen gentium e nel decreto sull’attività missionaria della Chiesa Ad gentes. A motivo della natura dottrinale della Lumen gentium, esamineremo in primo luogo la genesi delle sue formulazioni sul diaconato permanente.

Durante il primo periodo conciliare (1962),8 il problema del diaconato non richiamò molto l’attenzione come tema particolare: ciò indusse alcuni padri a segnalare la mancanza di qualsiasi menzione del diaconato nel capitolo che trattava dell’episcopato e del presbiterato.9 Ma durante la prima intersessione (1962-63), un certo numero di padri conciliari cominciò a evocare la possibilità di un ripristino del diaconato permanente, alcuni segnalandone i vantaggi in campo missionario o ecumenico, altri invitando alla prudenza. La maggioranza di loro, però, più che dei problemi teorici si interessava di quelli pratici: affrontarono soprattutto quello dell’ammissione di uomini sposati e le sue ripercussioni per il celibato ecclesiastico.10

Rispetto al livello di discussione del primo periodo, quello del secondo periodo (1963) coprì un ambito più ampio e si è rivelato essenziale per chiarire le intenzioni del Concilio.11 Tre interventi sul diaconato permanente potrebbero essere considerati «fondanti», nel senso che stabiliscono in qualche modo le direzioni e i parametri sia dottrinali sia pratici addotti nel corso del dibattito. Tali interventi furono fatti dai cardinali Julius Döpfner,12 Joannes Landázuri Ricketts13 e Leo Joseph Suenens.14 Gli altri interventi ripresero i temi da essi sollevati.

Per cominciare con i padri conciliari che hanno favorito il ristabilimento di un diaconato permanente, diciamo che essi hanno insistito sul fatto che il Concilio esaminava soltanto la possibilità di ristabilire il diaconato permanente nel tempo e nei luoghi dove l’autorità ecclesiastica competente lo ritenesse opportuno. Non c’era alcuna indicazione che l’instaurazione di un diaconato stabile potesse essere una realtà obbligatoria per tutte le Chiese locali. I padri intervenuti sul tema vedevano come, da un punto di vista pratico e pastorale, la Chiesa avrebbe tratto benefici da una tale decisione. La presenza di diaconi permanenti potrebbe aiutare a risolvere i problemi pastorali dovuti alla mancanza di preti nei paesi di missione e nelle regioni esposte alla persecuzione.15 La promozione delle vocazioni al diaconato potrebbe così mettere in maggiore evidenza il presbiterato.16 Ciò potrebbe aiutare a migliorare anche le relazioni ecumeniche della Chiesa latina con le altre Chiese che hanno conservato il diaconato permanente.17 Inoltre, gli uomini che desiderassero impegnarsi nell’apostolato in modo più intenso o coloro che si fossero già impegnati in qualche forma di ministero potrebbero appartenere alla gerarchia.18 Infine, l’ammissione di uomini sposati al diaconato potrebbe far sì che il celibato dei preti brilli maggiormente come un carisma abbracciato in spirito di libertà.19

Gli interventi fatti indicarono anche il fondamento teologico di un ristabilimento del diaconato permanente. Alcuni padri conciliari richiamarono l’attenzione sul fatto che il problema del diaconato permanente non era una semplice materia disciplinare, ma era propriamente un problema teologico.20 Occupando un grado nella sacra gerarchia della Chiesa, il diaconato ha fatto parte della costituzione della Chiesa sin dall’inizio.21 Il card. Döpfner affermò con forza: «Schema nostrum, agens de hierarchica constitutione Ecclesiae, ordinem diaconatus nullo modo silere potest, quia tripartitio hierarchiae ratione ordinis habita in episcopatum, presbyteratum et diaconatum est iuris divini et constitutioni Ecclesiae essentialiter propria».22 Se faceva rivivere il diaconato permanente, il Concilio non avrebbe alterato gli elementi costitutivi della Chiesa, ma avrebbe soltanto reintrodotto ciò che era stato abbandonato. L’insegnamento del concilio di Trento (sessione 23, can. 17) fu richiamato spesso. Inoltre, i padri sostennero che il diaconato era un sacramento che conferisce la grazia e un carattere.23 Non si dovrebbe considerare il diacono in modo uguale a un laico che sia al servizio della Chiesa, poiché il diaconato conferisce una grazia per esercitare un ufficio particolare.24 Così, un diacono non è un laico elevato al più alto grado dell’apostolato laico, ma un membro della gerarchia a motivo della grazia sacramentale e del carattere ricevuto al momento dell’ordinazione. Ora i diaconi permanenti, poiché si supponeva che vivessero e lavorassero in mezzo alla popolazione laica e al mondo secolare, potrebbero esercitare il ruolo di «ponte o mediazione tra la gerarchia e i fedeli».25 C’era dunque nei padri conciliari un’intenzione di ripristinare il diaconato come un grado permanente della gerarchia destinato a penetrare la società secolare alla maniera dei laici. Il diaconato permanente non era visto come una chiamata al presbiterato, ma come un ministero distinto per il servizio della Chiesa.26 Potrebbe così essere per la Chiesa un segno della sua vocazione a essere la serva di Cristo, la serva di Dio.27 La presenza del diacono, di conseguenza, potrebbe rinnovare la Chiesa in uno spirito evangelico di umiltà e di servizio.

Queste opinioni favorevoli al ripristino del diaconato permanente incontrarono obiezioni. Alcuni padri sottolinearono l’inutilità del diaconato permanente per risolvere il problema della carenza di preti, poiché i diaconi non possono sostituire del tutto i preti.28 Parecchi espressero il timore che l’accettare uomini sposati come diaconi possa mettere in pericolo il celibato dei preti.29 Ciò creerebbe un gruppo di chierici inferiori ai membri degli istituti secolari con voto di castità.30 Essi suggerirono soluzioni che apparivano meno pericolose, come la partecipazione alla pastorale di un maggior numero di uomini e di donne, laici impegnati e membri di istituti secolari.31

Il testo definitivo della Lumen gentium promulgato il 21 novembre 1964 esprime alcuni obiettivi accolti dal Concilio ristabilendo il diaconato come un grado proprio e permanente della gerarchia nella Chiesa latina.32

In primo luogo, secondo il n. 28a della Lumen gentium, il Vaticano II ripristina il diaconato come un grado proprio e permanente della gerarchia riconoscendolo come ministero ecclesiastico di istituzione divina così come si è evoluto nel corso della storia. Un motivo di fede dunque, anzi il riconoscimento del dono dello Spirito Santo nella realtà complessa dei santi ordini, fornisce l’ultima giustificazione della decisione del Concilio di ristabilire il diaconato.

La Lumen gentium (n. 29), però, presenta ciò che si potrebbe chiamare «ragione circostanziale» per il ripristino del diaconato permanente.33 Il Vaticano II prevede che i diaconi si debbano impegnare in compiti (munera) sommamente necessari per la vita della Chiesa (ad vitam Ecclesiae summopere necessaria), ma che in alcuni luoghi sarebbero difficilmente attuati a motivo della disciplina corrente della Chiesa latina. Le difficoltà della situazione presente causate dalla mancanza di preti esigono una risposta. La cura dei fedeli (pro cura animarum) è il fattore determinante per ripristinare il diaconato permanente in una Chiesa locale. Il ristabilimento del diaconato permanente è dunque ritenuto rispondere a bisogni pastorali gravi e non soltanto periferici. Ciò spiega in parte perché spetta alla responsabilità delle conferenze episcopali territoriali e non a quella del papa determinare se sia opportuno ordinare tali diaconi, perché esse hanno una conoscenza più immediata delle necessità delle Chiese locali.

Indirettamente, il Vaticano II si trova anche ad avviare un chiarimento dell’identità del prete, che non deve svolgere tutti i compiti necessari alla vita della Chiesa. Di conseguenza, essa potrebbe fare l’esperienza della ricchezza degli ordini sacri nei diversi gradi. Allo stesso tempo, il Vaticano II permette alla Chiesa di superare una comprensione del ministero ordinato strettamente sacerdotale.34 Poiché i diaconi sono ordinati «non ad sacerdotium, sed ad ministerium», è possibile concepire la vita clericale, la sacra gerarchia e il ministero nella Chiesa al di là della categoria del sacerdozio.

Vale la pena di notare inoltre che il diaconato permanente può essere conferito a uomini di età matura (viris maturioris aetatis), anche a coloro che vivono nello stato matrimoniale, ma che la legge del celibato rimane in vigore per i candidati più giovani. La Lumen gentium non dà le ragioni di tale decisione. Ma i dibattiti conciliari indicano che i padri desiderano fare del diaconato permanente un ordine che unirebbe più strettamente la sacra gerarchia e la vita secolare dei laici.

Nuove motivazioni emergono nella Ad gentes, n. 16. Qui il Concilio non ristabilisce il diaconato permanente solamente a causa della mancanza di preti. Ci sono uomini che di fatto esercitano già il ministero diaconale. Grazie all’imposizione delle mani, devono «essere rafforzati e associati più strettamente all’altare» (corroborari et altari arctius coniungi). La grazia sacramentale del diaconato li renderà capaci di esercitare più efficacemente il loro ministero. Qui il Vaticano II non è motivato solamente dalle difficoltà pastorali presenti, ma dalla necessità di riconoscere l’esistenza del ministero diaconale in alcune comunità. Esso desidera confermare con la grazia sacramentale coloro che esercitano il ministero diaconale o ne manifestano il carisma.

Dalla Lumen gentium all’Ad gentes c’è stato uno spostamento nelle intenzioni del Concilio. Esse possono rivestire una grande importanza per la comprensione non solamente del diaconato, ma della vera natura del sacramento. Possiamo discernere tre ragioni principali a favore del ripristino del diaconato permanente. In primo luogo, la restaurazione del diaconato come un grado proprio dell’ordine permette di riconoscere gli elementi costitutivi della sacra gerarchia voluta da Dio. In secondo luogo, è una risposta alla necessità di assicurare la cura pastorale indispensabile alle comunità che ne sono prive per la mancanza di preti. Infine, è una conferma, un rafforzamento e una più completa incorporazione al ministero della Chiesa di coloro che esercitano già de facto il ministero di diaconi.

II.La forma del diaconato permanente ripristinato dal concilio Vaticano II

Sei documenti promulgati dal Vaticano II contengono alcuni insegnamenti riguardanti il diaconato: Lumen gentium, Ad gentes, Dei Verbum, Sacrosanctum concilium, Orientalium Ecclesiarum e Christus Dominus. Nei paragrafi che seguono, gli elementi chiave dell’insegnamento del Vaticano II saranno affrontati per precisare la forma o la «figura» del diaconato permanente ripristinato.

  1. Il Vaticano II riconosce il diaconato come uno degli ordini sacri. La Lumen gentium (n. 29a; EV 1/359) stabilisce che i diaconi appartengono al grado più basso della gerarchia (in gradu inferiori hierarchiae sistunt diaconi). Sono «sostenuti dalla grazia sacramentale» (gratia sacramentali roborati) e ricevono l’imposizione delle mani «non ad sacerdotium, sed ad ministerium». Ma da nessuna parte si spiega nei documenti conciliari questa espressione importante tratta dagli Statuta Ecclesiae antiqua, variante di un’espressione più antica proveniente dalla Traditio apostolica di Ippolito.35

Il Vaticano II insegna che Cristo ha istituito i ministeri sacri per nutrire e far crescere il popolo di Dio. Un potere sacro è conferito ai ministri per il servizio del corpo di Cristo in modo che tutti possano ottenere la salvezza (LG 18a; EV 1/328). A imitazione degli altri ministri sacri, i diaconi devono dunque consacrarsi alla crescita della Chiesa e al perseguimento del suo disegno di salvezza.

All’interno del corpo dei ministri, i vescovi, che possiedono la pienezza del sacerdozio, assumono il servizio della comunità (communitatis ministerium) guidando il gregge al posto di Dio come docenti, preti e pastori. I diaconi, con i preti, aiutano i vescovi nel loro ministero (LG 20c; EV 1/333). Appartenendo all’ordine inferiore del ministero, i diaconi crescono in santità con l’adempimento fedele del loro ministero come partecipazione alla missione di Cristo, sommo sacerdote. «Missionis autem et gratiae supremi Sacerdotis peculiari modo participes sunt inferioris quoque ordinis ministri, imprimis diaconi, qui mysteriis Christi et Ecclesiae servientes» (LG 41d; EV 1/393). Benché occupino vari gradi all’interno della gerarchia, i tre ordini meritano tutti di essere chiamati ministri della salvezza (AG 16a; EV 1/1135), esercitando nella comunione gerarchica l’unico ministero ecclesiastico. Strettamente parlando, i diaconi partecipano alla missione di Cristo, ma non a quella del vescovo o del prete. Tuttavia, i modi concreti di esercitare tale partecipazione sono determinati dalle esigenze della comunione all’interno della gerarchia. Lungi dal degradare gli ordini dei preti e dei diaconi all’interno della gerarchia, la comunione gerarchica li situa all’interno dell’unica missione di Cristo partecipata dai vari ordini in gradi diversi.

  1. Le funzioni assegnate dal Concilio al diacono forniscono anche indicazioni sul modo in cui esso vede l’ordine diaconale. È bene ricordare che la funzione fondamentale di tutti i ministeri sacri, secondo il Vaticano II, è nutrire il popolo di Dio e condurlo alla salvezza. Perciò la Lumen gentium (n. 29b; EV 1/360) dichiara che il diaconato permanente può essere ristabilito se le autorità competenti decidono che sia opportuno scegliere diaconi, anche tra gli uomini sposati, pro cura animarum. Tutti i compiti che i diaconi sono autorizzati a svolgere sono al servizio del dovere fondamentale di edificare la Chiesa e di aver cura dei fedeli.

Per quanto riguarda i compiti specifici, la Lumen gentium (n. 29a; EV 1/359), presenta il servizio che il diacono presta al popolo di Dio nei termini del triplice ministero della liturgia, della parola e della carità. I compiti particolari dei diaconi rientrano verosimilmente nell’ambito dell’uno o dell’altro di tali ministeri. Il ministero della liturgia o della santificazione è ampiamente sviluppato nella Lumen gentium. Esso include la facoltà di amministrare solennemente il battesimo (cf. SC 68; EV 1/119), di custodire e distribuire l’eucaristia, di assistere al matrimonio e di benedirlo in nome della Chiesa, di portare il viatico al morente, di presiedere il culto e la preghiera dei fedeli, di amministrare i sacramentali e, infine, di compiere i riti dei funerali e della sepoltura. La funzione di insegnamento comprende la lettura delle sacre Scritture ai fedeli, l’istruzione e l’esortazione al popolo. La Dei verbum (n. 25a; EV 1/908) e la Sacrosanctum concilium (n. 35; EV 1/60) annoverano i diaconi tra coloro che sono ufficialmente impegnati nel ministero della Parola. Il ministero di «governo» non è menzionato come tale, ma riceve piuttosto il nome di ministero della carità. Per lo meno, si menziona l’amministrazione.

È chiaro che la funzione del diacono, com’è descritta dalla Lumen gentium, è soprattutto liturgica e sacramentale. Non si può evitare di interrogarsi sulla qualifica specifica dell’ordinazione diaconale «non ad sacerdotium, sed ad ministerium». La forma del ministero diaconale basata sulla Lumen gentium invita a un’analisi più profonda del senso di sacerdotium e di ministerium.

L’Ad gentes dà una configurazione diversa del diaconato permanente, come si può vedere a partire dalle funzioni che gli attribuisce, probabilmente perché parte dall’esperienza delle terre di missione. In primo luogo, vi si dicono poche cose del ministero liturgico del diacono. La predicazione della parola di Dio appare attraverso la menzione del catechismo. Quello che è chiamato il ministero di «governo» riceve un’elaborazione più ampia in Ad gentes, n. 16f. I diaconi governano in nome del parroco e del vescovo le comunità cristiane distanti. Esercitano anche la carità nelle opere sociali o caritative.

Il Vaticano II manifesta esitazione nella sua descrizione del diaconato permanente che ripristina. A partire dalla prospettiva più dottrinale della Lumen gentium, tende a enfatizzare l’immagine liturgica del diacono e il suo ministero di santificazione. A partire dalla prospettiva missionaria di Ad gentes, il centro si sposta verso l’aspetto amministrativo e caritativo della figura del diacono e del suo ministero di governo. È interessante notare, però, che il Concilio non pretende in nessuna parte che la forma di diaconato permanente da esso proposto sia una restaurazione di una forma anteriore. Ciò spiega perché alcuni teologi evitano il termine «restaurazione» perché può facilmente suggerire il fatto di riportare una realtà al suo stato originale. Ma il Vaticano II non pretende mai di fare ciò. Quello che esso ristabilisce, è il principio dell’esercizio permanente del diaconato, e non una forma particolare che esso avrebbe avuto nel passato.36 Avendo stabilito la possibilità di ripristinare il diaconato permanente, il Concilio sembra aperto alle forme che esso potrebbe assumere in futuro in funzione delle necessità pastorali e della prassi ecclesiale, ma sempre nella fedeltà alla Tradizione. Non ci si poteva attendere dal Vaticano II che fornisse una figura ben definita del diaconato permanente, perché si trovava di fronte a un vuoto nella vita pastorale del tempo, contrariamente al caso dell’episcopato e del presbiterato. Il massimo che poteva fare era aprire la possibilità di ripristinare il diaconato come grado proprio e permanente nella gerarchia e come modo di vita stabile, dare alcuni princìpi teologici generali che sembrano timidi e fissare alcune norme pratiche generali. Al di là, non poteva fare di più che attendere che si evolvesse la forma contemporanea di diaconato permanente. In conclusione, l’apparente indecisione ed esitazione del Concilio può servire come invito alla Chiesa perché continui a discernere il tipo di ministero appropriato al diaconato attraverso la prassi ecclesiale, la legislazione canonica e la riflessione teologica.37

 

  1. La realtà del diaconato permanente oggi

Dopo oltre 25 anni dal Vaticano II, che ne è della realtà del diaconato permanente?

Quando si esaminano le statistiche disponibili, ci si rende conto dell’immensa disparità esistente nella ripartizione dei diaconi nel mondo. Su un totale di 25.122 diaconi nel 1998,1 l’America del Nord ne conta da sola un po’ più della metà, cioè 12.801 (50,9%), mentre l’Europa ne enumera 7.864 (31,3%): ciò rappresenta per i paesi industrializzati del Nord del pianeta un totale di 20.665 diaconi (82,2%). Il rimanente 17,8% si suddivide così: America del Sud: 2.370 (9,4%); America Centrale e Antille: 1.387 (5,5%); Africa: 307 (1,22%); Asia: 219 (0,87%). L’Oceania chiude l’elenco con 174 diaconi, cioè lo 0,69% del totale.2

Un fatto non può non colpirci: il diaconato si è sviluppato soprattutto nelle società industriali progredite del Nord.3 Ciò non era stato affatto previsto dai padri conciliari quando avevano chiesto una «riattivazione» del diaconato permanente. Si aspettavano piuttosto uno sviluppo rapido nelle giovani Chiese in Africa e in Asia, nelle quali la pastorale si appoggiava su un gran numero di catechisti laici.4 Ma essi avevano stabilito che spetta alle «diverse conferenze episcopali territoriali competenti in materia decidere, con l’approvazione del sommo pontefice, se e dove [sia] opportuno che tali diaconi siano istituiti per il bene delle anime» (LG 29b; EV 1/360). È normale allora che il diaconato non abbia conosciuto uno sviluppo uniforme in tutta la Chiesa, poiché la valutazione delle necessità del popolo di Dio da parte dei diversi episcopati poteva variare secondo le situazioni concrete delle Chiese e dei loro modi di organizzazione.

Le statistiche ci permettono di intravedere che si è dovuto reagire a due situazioni molto diverse. Da una parte, la maggior parte delle Chiese nell’Europa occidentale e nell’America del Nord ha dovuto far fronte, dopo il Concilio, a una diminuzione molto forte del numero di preti e ha dovuto procedere a una riorganizzazione significativa dei ministeri. Dall’altra, le Chiese sorte in maggioranza dagli antichi territori di missione si erano date da molto tempo una struttura ricorrendo all’impegno di un gran numero di laici, i catechisti.

È necessario esaminare separatamente queste due situazioni tipo, ben sapendo che si dovrebbero aggiungere molte variabili; essendo pure consapevoli che, nell’uno e nell’altro caso, è possibile che un certo numero di vescovi abbia voluto instaurare il diaconato permanente nelle proprie diocesi non tanto per ragioni pastorali quanto piuttosto per un motivo teologico, ricordato anche dal Vaticano II: permettere al ministero ordinato di esprimersi meglio attraverso i tre gradi riconosciuti tradizionalmente.

Prima situazione tipo: Chiese dove il numero dei diaconi è poco elevato

Parecchie Chiese, dunque, non hanno avvertito il bisogno di sviluppare il diaconato permanente. Sono soprattutto Chiese abituate a funzionare da molto con un numero ristretto di preti e a ricorrere all’impegno di un gran numero di laici, soprattutto come catechisti. Al riguardo, il caso dell’Africa è esemplare.5 Esso riguarda indubbiamente l’esperienza di altre giovani Chiese.

Si ricorderà che negli anni cinquanta molti missionari e vescovi dell’Africa avevano chiesto il ripristino del diaconato, pensando in modo particolare ai catechisti dei paesi di missione: vi vedevano un modo di rispondere alle esigenze liturgiche delle missioni e alla carenza di preti. Questi nuovi diaconi così avrebbero potuto occuparsi della liturgia nelle sedi secondarie, dirigere le assemblee domenicali in assenza del missionario, presiedere i funerali, assistere al matrimonio, assicurare la catechesi e la proclamazione della parola di Dio, incaricarsi della Caritas e dell’amministrazione della Chiesa, conferire alcuni sacramenti…6 Tale prospettiva era presente in parecchi padri del concilio Vaticano II quando questo ricordava nell’Ad gentes «quella schiera [di catechisti], tanto benemerita dell’opera missionaria tra le genti».7

Ma negli anni successivi al Concilio, i vescovi africani si sono mostrati molto più riservati e non si sono impegnati sulla via di una riattivazione del diaconato. Un partecipante all’VIII Settimana teologica di Kinshasa tenutasi nel 1973 constata che in Africa la proposta di un ripristino del diaconato permanente ha suscitato molta più opposizione che entusiasmo. Le obiezioni avanzate saranno riprese in diversi luoghi. Riguardano lo stato di vita dei diaconi, la situazione finanziaria delle giovani Chiese, le conseguenze sulle vocazioni al sacerdozio, la confusione e l’incertezza relativa alla natura della vocazione diaconale, la clericalizzazione dei laici impegnati nell’apostolato, il conservatorismo e la mancanza di spirito critico di alcuni candidati, il matrimonio del clero e la svalutazione del celibato, la reazione dei fedeli che si accontenteranno del diaconato come di una mezza misura.8

I vescovi congolesi adottano dunque un atteggiamento prudente. Perché ordinare i catechisti come diaconi, se a essi non è concesso nessun nuovo potere? Ci si impegnerà piuttosto nella linea di una rivalutazione del laicato e si lavorerà a rinnovare il ruolo dei catechisti. Altri paesi faranno ricorso a una maggiore partecipazione dei laici come «servitori della Parola» o come animatori di piccole comunità. Ciò si potrà fare tanto meglio in quanto il Concilio ha fortemente messo in luce la vocazione di tutti i battezzati a partecipare alla missione della Chiesa.

Si sentirà spesso l’obiezione: «Che cosa può fare un diacono che non possa fare un laico»? Bisogna riconoscere che il vincolo sacramentale che unisce i diaconi al vescovo crea per costoro obblighi particolari che durano tutta la vita e che possono essere difficili da gestire, soprattutto nel caso dei diaconi sposati.9 D’altra parte, si tratta abitualmente di Chiese in cui il ruolo del ministero ordinato è ben marcato e conserva il suo senso profondo, anche se i preti sono poco numerosi.

Detto questo, si possono ugualmente citare alcune iniziative come quella del vescovo della diocesi indigena di San Cristóbal (Messico), mons. Ruiz. Di fronte al fatto che la sua diocesi non era mai riuscita ad avere vocazioni sacerdotali tra gli autoctoni, ha voluto fare una promozione intensiva del diaconato permanente: ha dunque messo in atto un lungo processo di formazione in grado di condurre sino al diaconato uomini amerindi sposati che sarebbero così associati sacramentalmente al suo ministero episcopale, inizio di una Chiesa autoctona.10

Seconda situazione tipo: Chiese dove il diaconato si è maggiormente sviluppato

La seconda situazione tipo è quella delle Chiese dove il diaconato ha conosciuto la sua maggiore espansione. Sono le Chiese che hanno dovuto affrontare una diminuzione notevole del numero di preti: Stati Uniti, Canada, Germania, Italia, Francia… La necessità di compiere un riordinamento dei compiti pastorali per rispondere ai bisogni di comunità cristiane abituate a una gamma importante di servizi e l’obbligo di trovare nuovi collaboratori hanno stimolato l’emergere di nuovi ministeri e l’aumento del numero di laici impegnati a tempo pieno nella pastorale parrocchiale o diocesana.11 Ciò ha favorito anche l’espansione del diaconato. Ma, nello stesso tempo, ha esercitato una pressione molto forte sul genere di compiti affidati ai diaconi. Compiti che per lungo tempo erano stati esercitati senza problemi dai preti, a motivo del loro grande numero, dovevano ora essere affidati ad altri collaboratori, gli uni ordinati (diaconi), gli altri non ordinati (operatori laici di pastorale). A motivo di tale contesto, spesso il diaconato è stato allora percepito come un ministero di supplenza presbiterale.

Tale dinamica è documentata in un’ampia ricerca compiuta negli Stati Uniti,12 ben rappresentativa della situazione esistente in molti paesi. Essa indica che i diaconi fanno soprattutto quello che i preti facevano senza aiuto prima del ripristino del diaconato. Esercitano il proprio ministero nella parrocchia di residenza e vi svolgono funzioni principalmente liturgiche e sacramentali. I loro parroci li trovano particolarmente efficaci nelle attività sacramentali, come i battesimi, i matrimoni e le liturgie. Lo stesso si dica per l’assistenza dei malati e per le omelie. Intervengono meno nel ministero tra i carcerati e nella promozione dei diritti civili e umani. I leader laici, da parte loro, considerano che i diaconi riescono meglio nei compiti più familiari e tradizionali come la liturgia e l’amministrazione dei sacramenti. E si prevede che il loro numero aumenterà a motivo della diminuzione del numero dei preti. Svolgendo così compiti tradizionalmente eseguiti da preti, i diaconi rischiano di apparire come «preti incompleti» o «laici più avanzati». Il pericolo è tanto più grande in quanto le prime generazioni di diaconi hanno ricevuto una formazione teologica molto meno elaborata di quella dei preti o degli operatori permanenti pastorali.

Un’evoluzione analoga si manifesta anche in altre regioni che conoscono pure una diminuzione notevole del numero dei preti.13 Si tratta qui di uno sforzo per rispondere a necessità reali del popolo di Dio. Essa permette a quelle Chiese di assicurare una presenza più ampia del ministero ordinato nelle comunità cristiane che potrebbero rischiare di perdere di vista il significato proprio di questo ministero. Con il vescovo e con il prete, il diacono ricorderà loro che è Cristo che fonda in ogni luogo la Chiesa e che mediante lo Spirito Santo agisce in essa.

In tale contesto, tuttavia, l’identità diaconale tende ad assumere come punto di riferimento la figura del prete: il diacono è visto come colui che aiuta il prete o lo sostituisce in attività che un tempo egli esercitava regolarmente. Per molti tale evoluzione rimane problematica, poiché rende più difficile l’emergere di un’identità propria del ministero diaconale.14 Perciò, qua e là si tenta di modificare l’evoluzione identificando carismi che potrebbero essere peculiari del diaconato e compiti suscettibili di essergli appropriati con priorità.

Linee evolutive

I testi più recenti delle congregazioni romane elencano, a loro volta, i compiti che possono essere affidati ai diaconi, raggruppandoli attorno alle tre diaconie riconosciute: liturgia, Parola e carità.15 Anche se si prevede che l’una o l’altra di tali diaconie potrà assorbire una parte maggiore dell’attività del diacono, si insiste per dire che l’insieme di queste tre diaconie «costituisce una unità al servizio del piano divino di redenzione: il ministero della Parola conduce al ministero dell’altare, che, a sua volta, spinge a tradurre concretamente la liturgia con una vita che conduca alla carità».16 Ma si riconosce che, nell’insieme di questi compiti, «il servizio della carità»17 appare come particolarmente caratteristico del ministero dei diaconi.

In parecchie regioni, si tenterà quindi di identificare per i diaconi un certo numero di compiti in grado di ricollegarsi in un modo o nell’altro al «servizio della carità». Si trarrà particolarmente profitto dal fatto che la maggior parte di essi sono uomini sposati, che assicurano la propria sussistenza, inseriti nell’ambiente di lavoro, vivendo con la loro sposa un’esperienza di vita originale.18

Ad esempio, un testo dei vescovi di Francia, pubblicato nel 1970, mostra la preferenza «per diaconi che, essendo quotidianamente a contatto con gli uomini grazie alla loro situazione familiare e professionale, possano con la loro vita testimoniare il servizio che il popolo di Dio deve rendere agli uomini sull’esempio di Cristo (…). I diaconi permanenti parteciperanno così in un modo a essi peculiare allo sforzo della Chiesa gerarchica per andare incontro alla non credenza e alla miseria, e per rendersi più presenti al mondo. Essi manterranno i loro impegni anteriori compatibili con il ministero diaconale».19 Si affiderà dunque ad essi una missione che è spesso situata «nell’ambito professionale e negli impegni associativi o sindacali (cioè politici, in particolare nei comuni). Essa è orientata verso l’assistenza ai poveri e agli esclusi, in quei luoghi, ma anche nel quartiere e nella parrocchia, a partire dall’habitat e dalla vita familiare».20

Si cercherà dunque, qua e là, di compiere uno sforzo particolare affinché il diaconato sia un «ministero della soglia», che tende a preoccuparsi della «Chiesa delle frontiere»: lavoro negli ambienti dove il prete non è presente e anche tra le famiglie monoparentali, tra le coppie, i carcerati, i giovani, i tossicomani, i malati di AIDS, gli anziani, i gruppi in difficoltà… Si orienteranno i compiti diaconali verso attività di ordine sociale, caritativo o amministrativo, senza tuttavia trascurare il necessario legame con i compiti liturgici e di insegnamento. In America Latina, si parlerà di famiglie evangelizzatrici negli ambienti domestici in conflitto; di presenza in situazioni limite come la droga, la prostituzione e la violenza urbana; di presenza attiva nel settore educativo, nel mondo operaio e nell’ambiente professionale; di presenza maggiore nelle zone densamente popolate come pure nelle campagne; infine, si ricorderà l’animazione delle piccole comunità.21 E molto spesso si insisterà perché i diaconi ricevano una formazione teologica e spirituale sempre più seria.

A partire da queste esperienze molto diverse, risulta con evidenza che non si può sperare di caratterizzare l’insieme del ministero diaconale con compiti che sarebbero esclusivi del diacono a motivo della tradizione ecclesiale – che è tutt’altro che chiara – o a motivo di una stretta ripartizione tra i diversi ministri.22 Un testo del Vaticano II sembra averne avuto l’intuizione, poiché una delle ragioni che invoca per ristabilire «il diaconato come stato di vita permanente» è fortificare «con l’imposizione delle mani trasmessa dagli apostoli» e unire più strettamente all’altare «uomini che svolgano un ministero veramente diaconale, o predicando la parola di Dio, o governando in nome del parroco e del vescovo comunità cristiane distanti, o esercitando la carità nelle opere sociali o caritative» (AG 16f; EV 1/1140).23 Questo indurrà alcuni a proporre che, per caratterizzare il diaconato, si debba piuttosto considerare l’aspetto dell’essere stesso del diacono. «È nella direzione dell’essere che occorre cercare la specificità del diaconato permanente, e non nell’aspetto del fare. Ciò che essi sono costituisce l’originalità di ciò che fanno».24

In tale prospettiva di configurazione a Cristo-servo si elabora attualmente una riflessione teologica e pastorale sulle linee di evoluzione del diaconato permanente. Si vede in questo dato teologico il luogo di un approfondimento spirituale molto appropriato al nostro tempo. Esso può guidare i pastori nella scelta dei compiti affidati al diacono. Si privilegeranno allora quei compiti che mettono meglio in evidenza questa caratteristica del diaconato. Servizio ai poveri e agli oppressi, senza dubbio, servizio che non sia semplice assistenza, ma che, a imitazione di Cristo, sia una condivisione di vita con i poveri per camminare con loro verso la liberazione totale.25 Servizio a coloro che sono sulla soglia della Chiesa e che bisogna condurre all’eucaristia. In molti paesi, tale prospettiva è molto presente nel pensiero dei responsabili della formazione dei diaconi e si vede svilupparsi tra i diaconi una spiritualità e una pastorale del «servizio della carità». La figura propria del diacono dovrebbe così emergere a poco a poco all’interno dei diversi ministeri e manifestarsi attraverso un certo modo di fare – in spirito di servizio – quello che tutti sono chiamati a fare, ma anche attraverso un investimento segnato da alcuni compiti o funzioni particolari che rendono maggiormente visibile il Cristo-servo.

Tuttavia, sembra ben acquisito che l’evoluzione del ministero del diaconato debba essere pensata sempre in collegamento con le necessità concrete della comunità cristiana. Alcune Chiese non avvertiranno il bisogno di assicurarne un ampio sviluppo. Altre Chiese vorranno, all’occasione, richiedere ai diaconi l’adempimento di compiti diversi da quelli elencati sopra: si può pensare a quelli che contribuiscono all’animazione pastorale delle parrocchie e delle piccole comunità cristiane. Poiché l’obiettivo essenziale per i pastori è sempre quello, ispirato da san Paolo, di «rendere idonei i fratelli a compiere il ministero, al fine di edificare il corpo di Cristo, finché arriviamo tutti all’unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, allo stato di uomo perfetto, nella misura che conviene alla piena maturità di Cristo» (Ef 4,12-13). Al servizio del vescovo e del suo presbiterio, il diacono deve, nel modo che gli è consono, andare là dove la sollecitudine pastorale lo richiede.

 

VII. Approccio teologico del diaconato nella linea del concilio Vaticano II

Un approccio teologico del diaconato nella linea del Vaticano II deve partire dai testi conciliari, esaminare come essi siano stati recepiti e poi come sono stati approfonditi nei documenti del magistero, tenere conto del fatto che il ripristino del diaconato si è realizzato in modo disuguale nel periodo postconciliare e, soprattutto, prestare una particolare attenzione alle oscillazioni di tipo dottrinale che hanno accompagnato come un’ombra tenace le varie posizioni pastorali. Diversi e numerosi sono gli aspetti che richiedono oggi uno sforzo di chiarificazione teologica. Nel presente capitolo intendiamo contribuire a tale sforzo di chiarificazione nel modo seguente. Identificheremo dapprima le radici e le ragioni che fanno dell’identità teologica ed ecclesiale del diaconato (permanente e transitorio) un’autentica «quaestio disputata» su determinati aspetti; preciseremo poi una teologia del ministero diaconale che possa costituire la base comune e sicura capace di ispirarne il rinnovamento (recréation) fecondo nelle comunità cristiane.

I.I testi del Vaticano II e del magistero postconciliare

Nei testi conciliari nei quali è menzionato esplicitamente il diaconato (cf. SC 35; LG 20, 28, 29, 41; OE 17; CD 15; DV 25; AG 15.16), il Vaticano II non ha preteso di dirimere dogmaticamente nessuno dei problemi discussi nell’aula conciliare, né offrire una sistematizzazione strettamente dottrinale. Il suo vero interesse era ripristinare il diaconato permanente in un’ottica aperta a realizzazioni plurime. Per questo forse nell’insieme dei testi si notano alcune fluttuazioni teologiche secondo il luogo o il contesto in cui si parla del diaconato. Sul piano sia delle priorità pastorali sia delle difficoltà dottrinali oggettive, i testi riflettono una diversità di accenti teologici che non è facile integrare armoniosamente.

In seguito, il diaconato è stato oggetto di sviluppi o di citazioni in altri documenti del magistero postconciliare: ilmotu proprio di Paolo VI Sacrum diaconatus ordinem (1967); la costituzione apostolica Pontificalis romani recognitio (1968); il m. p. Ad pascendum di Paolo VI (1972); il nuovo Codex iuris canonici (1983) e il Catechismus catholicae Ecclesiae (1992, 1997).1 Questi nuovi documenti prolungano gli elementi fondamentali del Vaticano II e aggiungono, a volte, precisazioni di importanza teologica, ecclesiale o pastorale; ma non tutti ne parlano nella stessa ottica, né godono dello stesso livello dottrinale.2 Perciò, per tentare un approccio teologico nella linea del Vaticano II, conviene tener conto della possibile relazione tra le oscillazioni dottrinali e la diversità degli approcci teologici identificabili nelle proposte postconciliari sul diaconato.

II.Implicazioni della sacramentalità del diaconato

Com’è stato detto sopra (cf. capitolo IV), considerare il diaconato come una realtà sacramentale costituisce la dottrina più sicura e più coerente con la prassi ecclesiale. Se se ne negasse la sacramentalità, il diaconato costituirebbe una forma di ministero fondato soltanto sul battesimo: rivestirebbe un carattere funzionale, e la Chiesa godrebbe di una grande capacità di decisione relativamente alla sua instaurazione o alla sua soppressione, come pure alla sua configurazione concreta; in ogni caso godrebbe di una libertà di azione molto più ampia di quella che le è concessa sui sacramenti istituiti da Cristo.3 Negando così la sacramentalità, si farebbero scomparire i principali motivi che fanno del diaconato una questione teologicamente disputata. Ma tale negazione ci condurrebbe ai margini della linea del Vaticano II. È dunque a partire dalla sua sacramentalità che si dovrà trattare degli altri problemi concernenti la teologia del diaconato.

  1. Inserimento del diaconato in Cristo

Poiché è una realtà sacramentale, in ultima analisi il diaconato deve essere fondato in Cristo. Fondata essa stessa sulla gratuità trinitaria, la Chiesa non ha, da sola, la capacità di creare i sacramenti né di conferire loro efficacia salvifica.4 Questo fondamento cristologico del diaconato costituisce un’affermazione teologicamente necessaria per la sua sacramentalità. Inoltre, permette di comprendere i vari tentativi della teologia per vincolare il diaconato direttamente a Cristo stesso (in relazione sia con la missione degli apostoli,5 sia con la lavanda dei piedi nell’Ultima cena).6 Ma ciò non implica che si debba sostenere che Cristo stesso abbia «istituito» direttamente il diaconato come grado sacramentale. Nella sua articolazione concreta e storica, la Chiesa ha svolto un ruolo decisivo. Questo era riconosciuto implicitamente nell’opinione, oggi minoritaria, che identificava l’istituzione dei sette (cf. At 6,1-6) con i primi diaconi.7 È quanto hanno reso manifesto gli studi esegetici e teologici sulla complessità degli sviluppi storici e sul progressivo processo di differenziazione del ministeri e dei carismi sino alla strutturazione tripartitica di vescovo, prete e diacono.8 Il linguaggio prudente del concilio di Trento («divina ordinatione») e del Vaticano II («divinitus institutum […] iam ab antiquo […]»)9 fa eco all’incapacità di identificare totalmente l’azione di Cristo e della Chiesa in rapporto ai sacramenti come pure alla complessità dei fatti storici.

  1. Il «carattere» sacramentale del diaconato e la «configurazione» a Cristo

Il Vaticano II non fa alcuna affermazione esplicita a proposito del carattere sacramentale del diaconato; la fanno invece i documenti postconciliari. Essi, infatti, parlano del «carattere indelebile» legato alla condizione del servizio stabile (Sacrum diaconatus ordinem, 1967) o di un «sigillo» indelebile che configura a Cristo «diacono» (CCE, 1997).10 La dottrina del «carattere» diaconale è coerente con la sacramentalità del diaconato e costituisce un’applicazione esplicita a quest’ultimo di ciò che Trento (1563) afferma per il sacramento dell’ordine nel suo insieme.11 Essa si fonda su testimonianze della tradizione teologica;12 corrobora la fedeltà di Dio ai suoi doni, implica la non reiterabilità del sacramento e la stabilità duratura nel servizio ecclesiale.13 Infine conferisce al diaconato una densità teologica che non può essere dissolta in una realtà meramente funzionale. Tuttavia, tale dottrina solleva alcuni interrogativi che richiedono ulteriori chiarimenti teologici: come intendere l’applicazione al diacono della distinzione «essentia, non gradu tantum», che la Lumen gentium (n. 10) stabilisce tra il sacerdozio comune e il sacerdozio ministeriale?14 Come precisare ulteriormente, entro l’unità del sacramento, la particolarità del carattere diaconale nella sua relazione distintiva al carattere presbiterale ed episcopale? Quali mezzi adoperare per differenziare simbolicamente in ogni caso la configurazione specifica a Cristo?

Il Vaticano II non usa la terminologia della configurazione, ma utilizza espressioni sobrie nelle quali la sacramentalità è inclusa.15 Parla anche di una partecipazione speciale alla missione e alla grazia del sommo sacerdote.16 Nel motu proprio Ad pascendum (1972) il diacono permanente è considerato segno o sacramento di Cristo stesso.17 Da parte sua, il CCE (1997) ricorre alla terminologia esplicita della configurazione, legandola alla dottrina del carattere.18 Siamo dunque di fronte a uno sviluppo ulteriore dei testi conciliari, conseguenza della relazione immediata del diacono con Cristo in virtù del sacramento dell’ordine. Rimane da precisare quale ne sia la portata.

  1. Azione diaconale, «in persona Christi (capitis)»?

L’espressione tecnica «in persona Christi (capitis)» conosce un uso diversificato nei testi del Vaticano II. Essa è adoperata in riferimento al ministero episcopale, considerato sia nel suo insieme, sia in una delle sue funzioni proprie;19 particolarmente significativa è la sua applicazione al ministero eucaristico del sacerdozio ministeriale (presbiterato) in quanto espressione massima di tale ministero,20 poiché presiedere e consacrare l’eucaristia spetta alla sua competenza esclusiva.21 La prospettiva è molto più ampia in altri testi, nei quali l’espressione può inglobare tutta l’azione ministeriale del prete in quanto personificazione di Cristo capo o fare allusione ad altre funzioni concrete distinte.22 Tuttavia, mai nei testi conciliari si parla di applicare esplicitamente tale espressione alle funzioni del ministero diaconale. Questo modo di esprimersi però farà il suo cammino nei documenti postconciliari.23 Ciò costituisce oggi un motivo di divergenza tra i teologi (specialmente per quel che riguarda la rappresentazione di Cristo «capo»), a causa del diverso significato che l’espressione ha nei documenti del magistero e nelle proposte teologiche.

Se si applica all’insieme del sacramento dell’ordine, in quanto partecipazione specifica al triplice «munus» di Cristo, allora si potrebbe dire che anche il diacono agisce «in persona Christi (capitis)» (o altre espressioni equivalenti di una «rappresentazione» specifica di Cristo nel ministero diaconale), per costituire un grado di questo sacramento. Oggi, molti teologi seguono tale orientamento, che, coerente con la sacramentalità, troverebbe sostegno in alcuni documenti del magistero e in alcune correnti teologiche. Coloro, invece, che riservano l’espressione alle sole funzioni «sacerdotali», specialmente quelle di presiedere e di consacrare l’eucaristia, non la applicano al diacono e ritengono di vedere tale opinione corroborata dall’ultima redazione del CCE (1997).

Infatti, nella redazione finale del n. 875 del CCE l’espressione «in persona Christi capitis» non è applicata alle funzioni diaconali del servizio.24 In questo caso la capacità di agire «in persona Christi capitis» sembra riservata ai vescovi e ai preti. Questo significa forse un’esclusione definitiva? Le opinioni teologiche non sono unanimi in proposito. In un certo modo, in quel n. 875 si ritorna al linguaggio della Lumen gentium n. 28a, della Presbyterorum ordinis n. 2c (ministero presbiterale) e della Lumen gentium n. 29a (triplice diaconia). D’altra parte, altri testi dello stesso CCE sembrano applicare l’espressione all’insieme del sacramento dell’ordine,25 riconoscendo un ruolo primario ai vescovi e ai preti.26 Ci si trova allora davanti a una diversità di tendenze difficili da armonizzare, che si riflettono nettamente nelle diverse concezioni teologiche del diaconato. E, anche supponendo che sia teologicamente esatto intendere il ministero diaconale come un’azione «in persona Christi (capitis)», rimane ancora da precisare ciò che caratterizza il suo modo proprio di rendere presente Cristo (lo «specificum»), diverso dal ministero episcopale e dal ministero presbiterale.

  1. «In persona Christi servi» come specificità del diaconato?

Un modo di farlo consiste nell’accentuare l’aspetto di «servizio» e nel vedere nella rappresentazione di Cristo «servo» la caratteristica propria o un elemento particolarmente distintivo del diaconato. Tale orientamento compare nei documenti più recenti27 e in alcuni studi teologici. Tuttavia, le difficoltà sorgono non a causa dell’importanza fondamentale della categoria del servizio per ogni ministero ordinato, ma perché se ne fa il criterio specifico del ministero diaconale. Sarebbe possibile separare «essere capo» e «servizio» nella rappresentazione di Cristo per fare di ognuno dei due un principio di differenziazione specifica? Cristo, il Signore, è insieme il Servo supremo e il servo di tutti.28 I ministeri del vescovo29 e del prete, proprio nella loro funzione di presidenza e di rappresentazione di Cristo capo, pastore e sposo della Chiesa, rendono visibile anche Cristo servo30 e richiedono di essere esercitati come servizi. Perciò appare problematica una dissociazione che stabilisca come criterio distintivo del diaconato la sua rappresentazione esclusiva di Cristo come servo. Poiché il servizio dev’essere considerato come una caratteristica comune a ogni ministero ordinato,31 si tratterebbe, in ogni caso, di vedere come nel diaconato trova un’importanza preponderante e una densità particolare. Per evitare qui usi teologici sproporzionati, conviene tenere conto insieme dell’unità della persona di Cristo, dell’unità del sacramento dell’ordine e del carattere simbolico dei termini rappresentativi (capo, servo, pastore, sposo).

  1. «Funzioni» diaconali specifiche?

Nel Vaticano II e nei documenti postconciliari, numerose e diversificate sono le funzioni attribuite ai diaconi in diversi ambiti o, come dice la Lumen gentium (n. 29a; EV 1/359), «in diaconia liturgiae, verbi et caritatis». In questi documenti non si trova una riflessione sul fatto che tutti questi compiti e funzioni possono essere eseguiti (come avviene oggi in molte comunità) dai cristiani che non hanno ricevuto alcuna ordinazione diaconale. Ora, sembrerebbe esistere, secondo Ad gentes (n. 16f), un «ministero veramente diaconale» anteriormente all’ordinazione, la quale non farebbe che fortificare, unire più strettamente all’altare e conferire una maggiore efficacia sacramentale.32 Tale constatazione conferma i dubbi di alcuni a proposito della sacramentalità del diaconato. Come affermare tale sacramentalità se essa non conferisce alcuna «potestas» specifica simile a quella che conferiscono il presbiterato e l’episcopato? Questa stessa constatazione diventa il motivo per il quale alcune Chiese locali giustificano la loro diffidenza e il loro atteggiamento negativo nei confronti dell’instaurazione del diaconato permanente: perché attuare tale ordinazione se le stesse funzioni possono essere eseguite da laici e con ministeri laici, in modo forse più efficace e più agile nel loro funzionamento? Siamo dunque di fronte a un problema teologico che ha ripercussioni pratiche e pastorali, che il Vaticano II non affronta esplicitamente e che occorre esaminare nella prospettiva di un’ecclesiologia di comunione (cf. infra, parte IV). Il proposito del Concilio è di fondare ogni «potestas sacra» nella Chiesa in modo sacramentale: perciò esso non ritiene indispensabile ricorrere alla distinzione tradizionale tra «potere di ordine» e «potere di giurisdizione».33 In ogni modo, ciò non ne ha impedito la ricomparsa nei documenti postconciliari.34 Tali oscillazioni spiegano forse il persistere del problema: che cosa «può fare» un diacono che un laico non possa fare?

III.Il diaconato nella prospettiva dell’episcopato come «plenitudo sacramenti ordinis»

Il Vaticano II ha affermato in modo chiaro e autentico la sacramentalità dell’episcopato, considerandolo come la «pienezza del sacramento dell’ordine» (LG 21b).35 Il capovolgimento di prospettiva che implica tale affermazione non fa della «pienezza» episcopale un motivo per privare della loro consistenza propria il presbiterato e il diaconato, come se avessero un senso soltanto come tappe preparatorie all’episcopato. Nella partecipazione all’unico sacerdozio di Cristo e alla missione salvifica, i preti cooperano con i vescovi, dipendendo da loro nell’esercizio pastorale del ministero.36 Si tratta di vedere in seguito come debba intendersi teologicamente il diaconato in questa stessa ottica.

  1. L’unità del sacramento dell’ordine

L’affermazione dell’unità del sacramento dell’ordine può essere considerata come appartenente al patrimonio teologico comune, e questo dal momento (secolo XII e successivi) in cui ci si è posti il problema della sacramentalità dei diversi gradi dell’ordine.37 Questa unità è mantenuta dal Vaticano II quando parla dei diversi ordini, tra cui il diaconato, nei quali si esercita il ministero ecclesiastico.38 I documenti postconciliari si situano nella stessa linea. Le difficoltà sorgono non a proposito dell’affermazione di tale unità, ma a proposito della strada teologica percorsa per giustificarla. Tradizionalmente, questa unità si giustificava a causa del riferimento del sacramento all’eucaristia, pur rispettando le diverse modalità proprie di ogni grado.39 Il Vaticano II ha modificato le prospettive e le formulazioni. Di qui, la necessità di cercare un’altra strada di giustificazione. Essa potrebbe consistere nel prendere come punto di partenza della riflessione l’episcopato in quanto «pienezza» del sacramento dell’ordine e fondamento della sua unità.

  1. «Profilo» e «consistenza» del diaconato

C’è una comprensione teologica del ministero ordinato inteso come «gerarchia» che è stata conservata nel Vaticano II e nei documenti posteriori. Essa40 conduce alla dottrina dei diversi «gradi» dell’ordine. Qui i diaconi costituiscono il grado «inferiore» in rapporto ai vescovi e ai preti all’interno della scala gerarchica.41 L’unità interna del sacramento dell’ordine fa sì che ogni grado partecipi«suo modo» al triplice «munus» ministeriale, in uno schema di gradazione discendente, nel quale il grado superiore include e supera tutta la realtà e le funzioni del grado inferiore. La «partecipazione» gerarchica e graduale di uno stesso sacramento fa del diacono un ministro dipendente dal vescovo e dal prete.

La difficoltà di conferire al diaconato (permanente) un profilo e una consistenza propri in questo schema gerarchico ha indotto a proporre altri modelli interpretativi. Evidentemente non sembra compatibile con i testi conciliari considerare l’episcopato, il sacerdozio e il diaconato come tre realtà sacramentali totalmente autonome, giustapposte e paritarie. L’unità del sacramento dell’ordine sarebbe gravemente lesa, e ciò non permetterebbe di comprendere l’episcopato come «pienezza» del sacramento. Perciò, alcuni approcci teologici contemporanei fanno valere la tradizione delle fonti antiche e dei riti di ordinazione, nei quali il diaconato appariva «ad ministerium episcopi». Il riferimento diretto e immediato del diaconato al ministero episcopale42 farebbe dei diaconi i collaboratori naturali del vescovo: ciò implicherebbe per loro la possibilità di eseguire (di preferenza) compiti nell’ambito sovraparrocchiale e diocesano.

In tal caso, rimane da esplicitare ancora meglio la relazione del diaconato (permanente) con il presbiterato. Secondo alcuni, sia i preti sia i diaconi si troverebbero su un piano simmetrico in rapporto alla «pienezza» del sacramento costituita dal ministero episcopale. Lo manifesterebbe la prassi antica delle ordinazioni (un diacono poteva essere ordinato vescovo senza passare necessariamente attraverso il presbiterato e un laico poteva diventare prete senza passare attraverso il diaconato).43 Si tratta di fatti storici dei quali occorre tener conto al momento di elaborare, oggi, il profilo ecclesiologico del diaconato. Tuttavia, non sembra teologicamente giustificato escludere i diaconi da ogni funzione di aiuto e di cooperazione con i preti,44 specialmente con l’insieme del «presbiterio».45 A tale proposito, l’ipotesi di un «collegio diaconale» attorno al vescovo, in quanto espressione dell’«ordo diaconorum», simile al «presbiterio»46 e in comunione con lui, richiede un maggiore approfondimento teologico. Su tale possibilità i testi conciliari e postconciliari non dicono praticamente nulla.47 Alcune riflessioni teologico-pastorali contemporanee, invece, sottolineano che la prospettiva di un collegio diaconale contribuirebbe a consolidare il profilo ecclesiale richiesto da un ministero che comporta l’esigenza della stabilità (diaconato permanente).48

  1. Imposizione delle mani «non ad sacerdotium (…)»

Secondo la Lumen gentium (n. 29a; EV 1/359), i diaconi ricevono l’imposizione delle mani «non ad sacerdotium, sed ad ministerium». Per questo punto, il Vaticano II rimanda a testi come gli Statuta Ecclesiae antiqua,49 la cui formulazione è rimasta sino a oggi nel Pontificale romano.50 Tuttavia, la formula risale alla Traditio apostolica (II-III secolo), dove è presente una specificazione che manca nei testi conciliari («in ministerio episcopi»).51 Inoltre, è controversa l’interpretazione del senso preciso di tale divergenza nell’attuale teologia del diaconato.52 Ci soffermiamo prima su ciò che sembra escluso in tale formulazione (il «sacerdotium»). Poi, esporremo ciò che sembra esservi affermato (il rapporto al «ministerium»).

Il diaconato non è «ad sacerdotium». Come interpretare tale esclusione? In un senso più stretto, il «sacerdotium» ministeriale è stato collegato tradizionalmente con il potere «conficiendi eucharistiam»,53 «offerendi sacrificium in Ecclesia»,54 o «consecrandi verum corpus et sanguinem Domini».55 In tale stretta connessione tra sacerdote ed eucaristia si sono fondate, per secoli, l’uguaglianza sacramentale dei vescovi e dei presbiteri nella loro condizione di «sacerdoti»,56 e l’attribuzione di un’origine soltanto giurisdizionale alla distinzione tra i due.57 Questa stessa ragione farebbe sì che i diaconi non siano ordinati «ad sacerdotium», data l’impossibilità, per loro, di presiedere e di consacrare validamente l’eucaristia, potere riservato esclusivamente ai «sacerdoti». Forse tale restrizione implica anche che il diaconato sia escluso dal «sacerdotium» inteso questa volta in un senso meno stretto? Di fatto, il Vaticano II ha posto la relazione tra il sacerdozio ministeriale e l’eucaristia in un contesto più ampio: quello di un’ecclesiologia incentrata sull’eucaristia vista come «totius vitae christianae fons et culmen»58 e quello di un sacerdozio ministeriale la cui relazione costitutiva con l’eucaristia si fonda su una «potestas sacra» più ampia, anche in relazione agli altri «munera» ministeriali.59 Se si esclude totalmente il diaconato dal «sacerdozio» in tutti i sensi del termine, allora bisognerà ripensare l’unità del sacramento dell’ordine come «sacerdozio ministeriale o gerarchico» (cf. LG 10b), come pure l’uso delle categorie «sacerdotali» come qualificazione coerente e inglobante del sacramento. Si possono notare qui diverse tendenze nei testi conciliari, nello sviluppo posteriore e negli sforzi di comprensione teologica del diaconato.

Da una parte, i testi del Vaticano II che fanno esplicitamente allusione al diaconato non gli applicano categorie sacerdotali, ma piuttosto categorie ministeriali.60 Nella stessa linea si collocano le precisazioni introdotte nell’ultima redazione del CCE, che distingue chiaramente, all’interno dell’unico sacramento dell’ordine, un grado di partecipazione sacerdotale (episcopato e presbiterato) e un grado di servizio (diaconi), che esclude l’applicazione del termine «sacerdos» ai diaconi.61 D’altra parte, quando il Vaticano II parla nella prospettiva dell’unico sacramento dell’ordine, sembra considerare le categorie «sacerdotali» come inglobanti ed estenderle al di là della distinzione tra «sacerdotium» e «ministerium». È il caso della Lumen gentium (n. 10b), che afferma una differenza essenziale e non soltanto di grado tra il sacerdozio comune dei fedeli e il sacerdozio ministeriale o gerarchico.62 Nella stessa linea, quando parla della spiritualità dei diversi stati di vita nella Lumen gentium (n. 41d), il Concilio sembra attribuire un ruolo intermedio ai diaconi nell’insieme dei diversi ministeri (bisogna notare che a quel tempo gli ordini minori non erano stati ancora soppressi), attribuendo loro una partecipazione particolare alla missione e alla grazia del sommo Sacerdote.63 Da parte sua, il CIC del 1983, nei cann. 1008-1009, integra i diaconi all’interno dei «sacri ministri», i quali sono abilitati dalla loro consacrazione a pascere il popolo di Dio e a eseguire «pro suo quisque gradu» le funzioni di insegnare, santificare e governare «in persona Christi capitis».64

Stando così le cose, non c’è da stupirsi nel vedere che gli sforzi postconciliari per comprendere teologicamente il diaconato siano segnati da tensioni causate dal fatto di escludere o di includere il diaconato nelle categorie sacerdotali. Finché il diaconato era di fatto un semplice grado per accedere al sacerdozio, tali tensioni sembravano accettabili. Dal momento in cui è diventato un diaconato permanente e si è consolidato come realtà in espansione in molte Chiese,65 le tensioni teologiche si sono accentuate e si sono sviluppate secondo due diverse linee di orientamento.

Basandosi sull’unità del sacramento dell’ordine e convinti di essere fedeli ai testi conciliari e postconciliari, alcuni insistono sull’unità del sacramento e applicano al diaconato princìpi teologici che sarebbero validi in proporzione per i tre gradi del sacramento; conservano, con alcune sfumature, la sua comprensione e denominazione globale come «sacerdotium ministeriale seu hierarchicum» (cf. LG 10b; EV 1/312); questo sarebbe avallato dall’uso linguistico della tradizione ecclesiale antica.66 In questa logica argomentativa, il diaconato è una realtà sacramentale che implica una differenza «essentia, non gradu tantum» (cf. LG 10b) in rapporto al sacerdozio comune dei fedeli. Perciò, l’affermazione secondo la quale il diaconato è «non ad sacerdotium» escluderebbe solamente le particolarità relative alla consacrazione eucaristica (e al sacramento della penitenza).67 Ma, a causa sia della sua integrazione nell’unico sacramento dell’ordine, sia della sua relazione particolare con il ministero eucaristico, sia del significato «sacerdotale», inteso in senso ampio, dei «munera» d’insegnamento e di governo, sia per la sua partecipazione specifica alla missione e alla grazia del sommo sacerdote, il diaconato dovrebbe essere incluso nel «sacerdozio ministeriale o gerarchico», distinto dal «sacerdozio comune» dei fedeli.

Diversamente, altre tendenze insistono fortemente sulla distinzione espressa dalla formula «non ad sacerdotium, sed ad ministerium». In una logica argomentativa contraria alla precedente, si tende a escludere dalla comprensione del diaconato ogni concettualizzazione o terminologia sacerdotali. Nello stesso tempo, si valorizza tale distinzione, che si considera come un passo decisivo per superare la «sacerdotalizzazione» del sacramento dell’ordine: quest’ultimo comporterebbe tre gradi, due dei quali (episcopato e presbiterato) apparterrebbero al «sacerdotium» e uno (diaconato) che sarebbe solamente «ad ministerium». In tal modo si evita di intendere teologicamente il diacono come un prete (presbitero) le cui competenze sarebbero – ancora – limitate. Nello stesso tempo, ciò permette di riconoscergli una maggiore consistenza e un’identità propria in quanto ministro della Chiesa. Tuttavia, rimane da precisare la sua identità alla luce di LG 10b, poiché, in quanto realtà sacramentale, il diaconato non è identificabile con le funzioni, servizi e ministeri fondati nel battesimo.

  1. «(…) sed ad ministerium (episcopi)»

Alcuni studi teologico-pastorali sul diaconato (permanente) vedono nella specificazione «in ministerio episcopi»68 un motivo fondato per rivendicare un legame diretto con il ministero episcopale.69 Pur mantenendo tale vincolo,70 il Vaticano II attenuò la forza che esso aveva nella Traditio apostolica, affermando che il diaconato era soltanto «ad ministerium», cioè un servizio per il popolo esercitato nell’ambito della liturgia, della parola e della carità, in comunione con il vescovo e con il suo presbiterio.71 Giovanni Paolo II accentua tale dimensione di servizio al popolo di Dio.72 Tuttavia, al momento di precisare la portata teologica dell’espressione «ad ministerium (episcopi)» e la possibile integrazione del diaconato nel ministero della successione apostolica, essi tornano in un certo modo alle divergenze già ricordate. Anche qui, i testi conciliari e postconciliari si mostrano ambivalenti.

Alla luce della Lumen gentium (nn. 20 e 24a), si è affermato che i vescovi erano i successori degli apostoli per prolungare la prima missione apostolica sino alla fine dei tempi.73 Da parte sua, LG 28a sembra includere anche i diaconi nella linea di successione che prolunga la missione di Cristo in quella degli apostoli, in quella dei vescovi e in quella del ministero ecclesiastico.74 Il CCE definisce il sacramento dell’ordine nei suoi tre gradi come il «sacramento del ministero apostolico».75 Fondandosi su tali testi, malgrado le loro variazioni terminologiche (ministero «ecclesiastico», «apostolico»),76 si potrebbe considerare il diaconato come parte integrante del ministero di successione apostolica. Ciò sarebbe coerente con l’unità del sacramento dell’ordine, con il suo fondamento ultimo in Cristo e con la partecipazione propria dei diaconi alla missione che gli apostoli e i loro successori ricevettero da Cristo.77

Tuttavia, questa conclusione non è condivisa da coloro i quali ritengono che sia una differenza qualitativa la distinzione tra «sacerdotium» e «ministerium» e attribuiscono un’importanza decisiva alle ultime modifiche del CCE (n. 1154) (vi si riserva il termine «sacerdos» ai vescovi e ai preti), nelle quali essi vedono un superamento di ciò che è stato detto prima e un riferimento chiave per gli sviluppi futuri. Il ministero apostolico si comprende come la continuazione della «diaconia» di Cristo, la quale non è dissociabile dal suo «sacerdozio»: l’offerta sacerdotale che egli fa della sua vita costituisce infatti il suo servizio diaconale per la salvezza del mondo. In questo senso, la «diaconia» o servizio caratterizza il «munus» dei pastori (vescovi) del popolo di Dio78 e non sarebbe adeguato presentare i diaconi come gli eredi specifici della dimensione diaconale del ministero. Il diaconato dovrebbe essere riconosciuto come apostolico quanto al suo fondamento, e non quanto alla sua natura teologica. È come dire che il ministero apostolico dovrebbe essere limitato ai «sacerdoti»79 (vescovi e presbiteri), mentre i diaconi farebbero parte del ministero «ecclesiastico»80 e dovrebbero essere considerati, di conseguenza, come collaboratori ausiliari del ministero di successione apostolica, del quale, a rigore, non sarebbero parte integrante.

  1. Il diaconato come funzione di mediazione o «medius ordo»?

L’attribuzione al diaconato permanente di una funzione mediatrice o di ponte tra la gerarchia e il popolo era già apparsa negli interventi fatti nell’aula conciliare e nelle note della Commissione conciliare pertinente.81 Benché non sia stata accettata dai testi definitivi, tale idea fu in qualche modo riflessa dal modo di procedere seguito nella Lumen gentium (n. 29): il testo parla dei diaconi alla fine del capitolo III, in quanto grado inferiore della gerarchia, proprio prima di affrontare nel capitolo IV il tema dei laici. Si ritrova lo stesso procedimento in Ad gentes (n. 16). L’espressione stessa «medius ordo» applicata esplicitamente al diaconato (permanente) si trova soltanto nel m. p. Ad pascendum (1972) ed è presentata come un modo di tradurre gli auspici e le intenzioni che avevano condotto al Vaticano II.82 L’idea ha conosciuto un’ampia diffusione nella teologia contemporanea e ha dato luogo a differenti modi di concepire questa funzione di mediazione: tra il clero e i laici, tra la Chiesa e il mondo, tra il culto e la vita ordinaria, tra i compiti caritativi e l’eucaristia, tra il centro e la periferia della comunità cristiana. In ogni caso, questa idea merita alcune precisazioni teologiche.

Sarebbe un errore teologico identificare il diaconato in quanto «medius ordo» con una specie di realtà (sacramentale?) intermedia tra i battezzati e gli ordinati: la sua appartenenza al sacramento dell’ordine è una dottrina sicura. Teologicamente, il diacono non è un «laico». Il Vaticano II lo considera membro della gerarchia e il CIC lo tratta come «sacer minister» o «clericus».83 È certo che spetta al diacono svolgere un certo compito di mediazione, ma non sarebbe teologicamente esatto fare di tale compito l’espressione della sua natura teologica o della sua specificità. D’altra parte, non si può ignorare il rischio che la determinazione ecclesiologica del diaconato e la sua istituzionalizzazione pastorale come «medius ordo» finiscano con il sancire e l’accentuare, a causa di questa stessa funzione, il divario che pretendevano di abolire.

Queste precisazioni teologiche non implicano il rifiuto totale di ogni funzione mediatrice da parte del diacono. L’idea trova un sostegno nelle testimonianze della tradizione ecclesiale.84 In un certo modo, essa rimane riflessa nella posizione ecclesiologica che la legislazione canonica attuale (CIC 1983) attribuisce ai diaconi tra la missione dei laici e quella dei preti. Da una parte, i diaconi (permanenti) vivono nel mondo con uno stile laico di vita (benché ci sia la possibilità di un diaconato permanente religioso) e con alcune «concessioni» che non sono (sempre) riconosciute a tutti i chierici e i preti.85 D’altra parte, ci sono alcune funzioni nelle quali sono integrati insieme i diaconi e i preti e nelle quali hanno entrambi la stessa precedenza rispetto ai laici.86 Ciò non significa che i diaconi possano esercitare completamente tutte le funzioni che spettano ai preti (eucaristia, penitenza, unzione dei malati). Tuttavia, tranne alcuni casi di eccezione, si applica in linea di massima ai diaconi ciò che il CIC stabilisce per i «chierici» in generale (cf. can. 273ss).

  1. Il diaconato in una «ecclesiologia di comunione»

Benché i testi del Vaticano II ne costituiscano il fondamento, è a partire dal Sinodo del 1985 che si è sviluppata, con più vigore, la cosiddetta «ecclesiologia di comunione».87 Grazie a tale ecclesiologia, si precisa il significato della Chiesa in quanto «sacramento universale della salvezza» (cf. LG 1, 9; EV 1/284.308ss) che trova nella comunione del Dio trinitario la fonte e il modello ecclesiale di ogni dinamismo salvifico. La «diaconia» ne costituisce la realizzazione storica. Si tratta ora di integrare nella «diaconia», che compete a tutto il popolo di Dio, la configurazione sacramentale che essa riveste nel ministero del diaconato.

  1. I «munera» del diaconato: pluralità di funzioni e oscillazioni di priorità

La Lumen gentium (n. 29a) enumera ed esplicita le funzioni diaconali nell’ambito della liturgia (dove si riconoscono ai diaconi compiti di presidenza), della parola e della carità, ricollegando a quest’ultima i compiti amministrativi.88 Ad gentes (n. 16) segue un altro ordine: ministero della parola, del governo delle comunità e della carità.89 A sua volta, Sacrum diaconatus ordinem rileva undici compiti, otto dei quali appartengono all’ambito liturgico (che così rimane privilegiato) benché abbiano a volte carattere di supplenza. I compiti caritativi e sociali sono esercitati in nome della gerarchia e comprendono anche il dovere di favorire l’apostolato laico.90 Il CIC si occupa dettagliatamente delle facoltà e dei compiti propri dei diaconi; vi si nota la possibilità di conferire ai diaconi una partecipazione all’esercizio della «cura pastoralis» della parrocchia.91 In riferimento ai testi conciliari di LG 29, SC 35 e AG 16, il CCE prolunga l’enumerazione già nota in rapporto alla vita liturgica (con una menzione esplicita dell’assistenza al vescovo e ai preti), alla vita pastorale e ai compiti caritativi e sociali.92 La Ratio fundamentalis presenta il ministero diaconale come un esercizio dei tre «munera» alla luce specifica della «diaconia», secondo l’enumerazione del «munus docendi», del «munus sanctificandi» (con l’eucaristia come punto di partenza e di arrivo) e del «munus regendi» (nel quale è integrato il compito caritativo come nota preminente del ministero diaconale).93 Da parte sua, il Directorium riprende la triplice diaconia della Lumen gentium (n. 29), ma modificandone la sequenza (parola, liturgia, carità). In tal modo, mantiene la diaconia della parola come la funzione principale del diacono; valorizza la diaconia della liturgia come un aiuto intrinseco e organico al ministero presbiterale e considera la diaconia della carità come un modo diverso di partecipare ai compiti pastorali del vescovo e dei preti.94

Le diverse funzioni attribuite al diaconato (permanente) nei testi conciliari e postconciliari ci giungono generalmente dall’antica tradizione liturgica, dai riti di ordinazione e dalla riflessione teologica corrispondente. Esse si aprono anche alle situazioni e alle necessità pastorali contemporanee, benché, in questo caso, si noti nei documenti una certa riserva. In genere si ammette una triplice «diaconia» o un triplice«munus» che serve da struttura di base per l’insieme delle funzioni diaconali. Nei documenti e nelle numerose elaborazioni teologiche, si attribuisce una certa preminenza ai compiti caritativi;95 tuttavia, sarebbe problematico considerarli come specifici del diaconato, poiché sono anche responsabilità proprie dei vescovi e dei preti, di cui i diaconi sono gli ausiliari. Inoltre, le testimonianze della tradizione ecclesiale invitano a integrare le tre funzioni in un tutto. In tale prospettiva è possibile distinguere diverse accentuazioni nella figura del ministero diaconale. Esso può imperniarsi con maggiore intensità sia sulla carità, sia sulla liturgia, sia sull’evangelizzazione; può esercitarsi in un servizio direttamente legato al vescovo o in ambito parrocchiale; si può anche conservare simultaneamente il diaconato permanente e il diaconato transitorio o decidere un’opzione chiara a favore di una sola figura. In quale misura tale diversità potrà essere plausibile e percorribile a lungo termine? Dipenderà non soltanto dalla comprensione teologica che si avrà del diaconato, ma anche dalla situazione reale delle diverse Chiese locali.

 

  1. La comunione nella pluralità dei ministeri

L’esercizio concreto del diaconato nei diversi ambienti contribuirà anche a definire la sua identità ministeriale, modificando, se necessario, un quadro ecclesiale nel quale il suo vincolo con il ministero del vescovo appare appena, e la figura del prete è identificata con la totalità delle funzioni ministeriali. A tale evoluzione contribuirà la coscienza viva che la Chiesa è «comunione». Tuttavia, gli interrogativi teologici relativi ai «poteri» specifici del diaconato potranno difficilmente trovare una soluzione soltanto attraverso la via pratica. Non tutti considerano questo problema come una difficoltà insolubile. Così si possono osservare diverse proposte della teologia contemporanea che cercano di conferire al diaconato solidità teologica, accettazione ecclesiale e credibilità pastorale.

Alcuni relativizzano l’importanza del problema dei «poteri». Farne una questione centrale sarebbe una soluzione piuttosto riduzionista e snaturerebbe il vero senso del ministero ordinato. D’altra parte, la constatazione, già antica, che un laico può svolgere i compiti del diacono non ha impedito che, nella prassi ecclesiale, questo ministero sia stato considerato sotto ogni punto di vista come sacramentale. Inoltre, non sarebbe nemmeno possibile riservare in particolare ai vescovi e ai preti l’esclusività di alcune funzioni, tranne il caso della «potestas conficiendi eucharistiam»,96 del sacramento della penitenza97 e dell’ordinazione dei vescovi.98 Altri distinguono tra ciò che è o dovrebbe essere l’esercizio normale e ordinario dell’insieme delle funzioni attribuite ai diaconi e ciò che potrebbe essere considerato come un esercizio straordinario da parte dei cristiani,99 determinato dalle necessità o dalle urgenze pastorali, anche di carattere duraturo. Una certa analogia potrebbe stabilirsi con le competenze normali e ordinarie del vescovo rispetto alla cresima (che anche il prete può amministrare)100 e all’ordinazione presbiterale (che, secondo alcune bolle pontificie, sembra essere stata compiuta anche da preti in via straordinaria).101

Infine, altri mettono in dubbio anche il fatto che un fedele non ordinato realizzi esattamente gli stessi «munera» allo stesso modo e con la stessa efficacia salvifica di un diacono ordinato. Costui eserciterebbe i «munera» propri del ministero ordinato alla luce specifica della «diaconia».102 Anche se apparentemente si tratta delle stesse funzioni che esercita un fedele non ordinato, ciò che rimane decisivo sarebbe «l’essere» piuttosto che il «fare»: nell’azione diaconale si realizzerebbe una presenza particolare del Cristo capo e servo propria della grazia sacramentale, della configurazione con lui e della dimensione comunitaria e pubblica dei compiti che sono esercitati in nome della Chiesa. L’ottica credente e la realtà sacramentale del diaconato permetterebbero di scoprire e di affermare la sua propria particolarità, in relazione non con le sue funzioni, ma con la sua natura teologica e con il suo simbolismo rappresentativo.

Conclusione

Dal punto di vista del suo significato teologico e del suo ruolo ecclesiale, il ministero del diaconato costituisce una sfida per la coscienza e la prassi della Chiesa, soprattutto per i problemi che solleva ancor oggi. A proposito dei diaconi, molti testimoni della tradizione hanno ricordato che il Signore ha scelto gesti di umile servizio per esprimere e rendere presente la realtà della morphe doulou (Fil 2,7), che egli ha assunto in vista della missione della salvezza. Concretamente, il diaconato è nato come aiuto agli apostoli e ai loro successori, questi stessi intesi come servi alla sequela di Cristo. Se il diaconato è stato costituito come ministero permanente dal concilio Vaticano II, è specialmente per rispondere a necessità concrete (cf. LG 29b) o per concedere la grazia sacramentale a quelli che compiono già funzioni diaconali (AG 16f). Ma l’identificazione più chiara di queste necessità e di queste funzioni nelle comunità cristiane rimane da compiere, benché si disponga già della ricca esperienza delle Chiese particolari che, dopo il Concilio, hanno accolto nella loro pastorale il ministero permanente del diaconato.

Nella coscienza attuale della Chiesa, c’è un solo sacramento dell’ordine. Riprendendo l’insegnamento di Pio XII,1 il concilio Vaticano II afferma tale unità, e vi riconosce incluso l’episcopato, il presbiterato e il diaconato. Secondo la decisione di Paolo VI, solamente questi tre ministeri ordinati costituiscono lo stato clericale.2 Con prudenza, tuttavia, per quanto riguarda il diaconato, il Concilio parla solamente di «grazia sacramentale». Dopo il Vaticano II, Paolo VI3 e il CCE (n. 1570) insegnano che, con l’ordinazione, il diacono riceve il carattere del sacramento dell’ordine. Il can. 1008 del CIC afferma che i tre ministeri ordinati sono esercitati in persona Christi capitis.4 Seguendo la Lumen gentium (n. 29), che attribuisce al diacono l’amministrazione solenne del battesimo (cf. SC 68), il can. 861, 1, presenta ognuno dei tre ministri ordinati come ministri ordinari di questo sacramento; il can. 129 riconosce a tutti coloro che hanno ricevuto l’ordine sacro la potestas regiminis.5

D’altra parte, è sottolineata anche la differenza tra i ministeri sacerdotali e il ministero diaconale. L’affermazione conciliare secondo la quale il diacono non è ordinato per il sacerdozio ma per il ministero è stata recepita dai diversi documenti del magistero postconciliare. Nel modo più chiaro, il CCE (n. 1554) distingue all’interno di una stessa ordinatio il gradus participationis sacerdotalis dell’episcopato e del presbiterato e il gradus servitii del diaconato. Infatti, il diaconato, per il suo modo di partecipare all’unica missione di Cristo, realizza sacramentalmente questa missione come un servizio ausiliario. È «icona vivens Christi servi in Ecclesia», ma mantiene, proprio in quanto tale, un legame costitutivo con il ministero sacerdotale al quale presta il proprio servizio (cf. LG 41). Non è un servizio qualsiasi che è attribuito al diacono nella Chiesa: il suo servizio appartiene al sacramento dell’ordine in quanto collaborazione stretta con il vescovo e con i presbiteri, nell’unità della medesima attualizzazione ministeriale della missione di Cristo. Il CCE (n. 1554) cita sant’Ignazio di Antiochia: «Tutti riveriscano i diaconi come Gesù Cristo, come pure il vescovo, che è l’immagine del Padre, e i presbiteri come il senato di Dio e come l’assemblea degli apostoli: senza di loro non si può parlare di Chiesa».6

Per quel che riguarda l’ordinazione delle donne al diaconato, conviene notare due indicazioni importanti che emergono da quanto è stato sin qui esposto: 1) le diaconesse di cui si fa menzione nella tradizione della Chiesa primitiva – secondo ciò che suggeriscono il rito di istituzione e le funzioni esercitate – non sono puramente e semplicemente assimilabili ai diaconi; 2) l’unità del sacramento dell’ordine, nella chiara distinzione tra i ministeri del vescovo e dei presbiteri da una parte, e il ministero diaconale dall’altra, è fortemente sottolineata dalla tradizione ecclesiale, soprattutto nella dottrina del concilio Vaticano II e nell’insegnamento postconciliare del magistero. Alla luce di tali elementi posti in evidenza dalla presente ricerca storico-teologica, spetterà al ministero di discernimento che il Signore ha stabilito nella sua Chiesa pronunciarsi con autorità sulla questione.

Al di là di tutti i problemi che solleva il diaconato, è bene ricordare che dopo il concilio Vaticano II la presenza attiva di questo ministero nella vita della Chiesa suscita, in memoria dell’esempio di Cristo, una coscienza più viva del valore del servizio per la vita cristiana.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Note

 

Introduzione

* Nota preliminare. Lo studio del tema del diaconato era stato affrontato dalla Commissione teologica internazionale già nel quinquennio 1992-97. Il lavoro si era svolto all’interno di una sottocommissione, che aveva il compito di approfondire alcuni problemi ecclesiologici, presieduta da mons. Max Thurian e comprendente i seguenti membri: s.e. mons. Christoph Schönborn op, s.e. mons. Joseph Osei-Bonsu, rev. Charles Acton, mons. Giuseppe Colombo, mons. Joseph Doré pss, prof. Gösta Hallonsten, rev. padre Stanislaw Nagy sci, rev. Henrique de Noronha Galvão.

Dal momento tuttavia che tale sottocommissione non ebbe modo di portare a termine il suo lavoro con la pubblicazione di un documento, lo studio fu ripreso nell’ambito della Commissione del quinquennio successivo, sulla base anche del lavoro svolto in precedenza. A questo scopo fu formata una nuova sottocommissione, presieduta dal rev. Henrique de Noronha Galvão e composta dal rev. Santiago Del Cura Elena, dal rev. Pierre Gaudette, da mons. Roland Minnerath, da mons. Gerhard Ludwig Müller, da mons. Luis Tagle e dal rev. Ladislaus Vanyo. Le discussioni generali su questo tema si sono svolte in numerosi incontri della sottocommissione e durante le sessioni plenarie della stessa Commissione teologica internazionale, tenutesi a Roma dal 1998 al 2002. Il presente testo è stato approvato in forma specifica, con il voto unanime della Commissione, il 30 settembre 2002, ed è stato poi sottoposto al suo presidente, il card. J. Ratzinger, prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, il quale ne ha autorizzato la pubblicazione.

 

1Cf. W. Kasper, Theologie und Kirche, Mainz 1987, 99: «Einzelne Zeugnisse haben theologisch normative Bedeutung nur, insofern sie maßgebliche Repräsentanten des gemeinsamen Glaubens der Kirche sind. Es gilt also in der Vielfalt und Fülle der Traditionszeugnisse den “roten Faden” herauszufinden. Dafür genügt historische Erudition, so unverzichtbar sie ist, nicht. Es bedarf vielmehr eines geistlichen Gespürs und Feinsinns, um die eine und gemeinsame Tradition in den vielen Traditionen erkennen zu können. Allein der sensus fidei vermag festzustellen, wo wirklicher consensus fidei und nicht verbreitete, aber zeitbedingte Meinung vorliegt». Classica su questo tema rimane l’opera di Y. Congar, La Tradition et les traditions, 2 voll., Paris 1960-63.

 

  1. Il diaconato nel Nuovo Testamento e nella Patristica

   1 Ne 1,10: «Ora questi sono tuoi servi e tuo popolo; tu li hai redenti con grande potenza e con mano forte»; 6,3: «Ma io inviai loro messaggeri a dire…»; 6,5: «Allora Sanballat mi mandò a dire (…) per mezzo del suo servo…»; Pr 10,4a (LXX); 1Mac 11,58; 4Mac 9,17; Ester greco 6,13.

2 Fil 1,1; 1Tm 3,8.12.

3 Cf. E. Cattaneo, I ministeri nella Chiesa antica, testi patristici dei primi tre secoli, Milano 1977, 33ss; J. Lécuyer, Le sacrement de l’ordination (ThH 65), Paris 1983, 131.

4H. W. Beyer, «Diakoneo, diakonia, diakonos», in Theologisches Wörterbuch zum Neuen Testament, Bd. II, 81-93.

5 Filone, De vita contemplativa, 70 e 75.

6 Giuseppe Flavio, Antiquitates, VII, 365; X, 72.

7Lc 17,8; 12,37; 22,26; Gv 12,2.

8 2Cor 8,19.

9 Rm 15,25.

10 «The meaning of the laying on of the hands in Acts 6,6 and 13,3 has been much disputed, but the stress laid on this gesture in both textes makes it difficult to see it as a mere act of blessing and not as an ordination rite (…). The usual verb to denote the election of a minister by the community is eklegein, latin eligere. The verb cheirotonein may have the same meaning “to choose by stretching out the hand” (Did. 15,1), but it becomes a technical term for the appointment, i.e., the ordination of a minister, in latin ordinare. In this meaning it is synonymous with kathistanai, latin instituere. Another synonym is procheirizein. It is less usual and sometimes denotes the aspect of election and appointment by God. All these verbs are synonymous with cheir (as) epitheinai, but whereas the former group denotes the juridical aspect, the latter lays emphasis on the liturgical act. Moreover all the terms of the former group can be used for an appointment/ordination wich does not include an imposition of hands, but there is apparently a preference for cheirotonein / cheirotonia, as they are composed with cheir-, when the imposition of the hand (or of both hands) is included. A first attempt for such a distinction is made by Hippolytus, Trad. ap. 10»: J. Ysebaert, «The Deaconesses in the Western Church of late Antiquity and their Origin», in Eulogia. Mélanges offertes à Antoon A.R. Bastiaensen (IP XXIV), Steenburgis 1991, 423.

11 Rm 11,13; 12,6ss; 1Cor 12,5; 2Cor 4,1; Ef 4,11ss; Eb 1,14: «leitourgica pneumata»; At 21,19; Col 4,17.

12 «Amt im Sinne Jesu muss immer “diakonia”sein; nicht zufällig, nicht nebenbei, sondern sehr bewusst und ausdrücklich wählt die Heilige Schrift dieses Wort zu seiner Wesensbestimmung. Die griechische Sprache bot eine ganze Reihe von Mö-  glichkeiten, das Amt in einer menschlichen Gemeinschaft – auch im religiöskultischen Bereich – zu charakterisieren (archai, exousiai, archontes). Das Neue Testament wählte keine davon, sondern entschied sich für eine Bezeichnung, die weder in der jüdischen, noch in der hellenistischen Umwelt üblich war»: E. Dassmann, Ämter und Dienste in der frühchristlichen Gemeinden (Hereditas 8), Bonn 1994, 37.

13 Fil 1,1: «cum episcopis et diaconis»; 1Tm 3,8.12: «diaconos similiter (…) (sicut episcopi) (…) diaconi sint (…)».

14«Dieser Tatbestand zeigt, dass der Ursprung des Diakonenamtes nicht in Ag 6 zu finden ist (…). Der Diakonos ist nicht nur Diener seiner Gemeinde, sondern auch seines Bischofes»: H.W. Beyer, «Diakoneo…», 90. Cf. M. Dibelius, Bischöfe und Diakonen in Philippi (1937). Das kirchliche Amt im Neuen Testament (WdF CDXXXIX), Darmstadt 1977, 413ss; E. Schweizer, «Das Amt. Zum Amtsbegriff im Neuen Testament», in Gemeinde und Gemeindeordnung im Neuen Testament (AThANT 35), Zürich 1955, 154-164: «Als allgemeine Bezeichnung dessen, was wir “Amt” nennen, also des Dienstes Einzelner innerhalb der Gemeinde, gibt es mit wenigen Ausnahmen nur ein einziges Wort: “diakonia”, Diakonie. Das NT wählt also durchwegs und einheitlich ein Wort, das völlig unbiblisch und unreligiös ist und nirgends eine Assoziation mit einer besonderen Würde oder Stellung einschliesst. Im griechischen AT kommt das Wort nur einmal rein profan vor (…). In der griechischen Sprachentwicklung ist die Grundbedeutung “zu Tischen dienen” auch zum umfassenden Begriff “dienen” ausgeweitet worden. Es bezeichnet fast durchwegs etwas Minderwertiges, kann aber im Hellenismus auch die Haltung des Weisen gegen Gott (nicht gegen den Mitmenschen) umschreiben»; K.H. Schelke, «Dienste und Diener in den Kirchen der Neutestamentlichen Zeit», in Concilium 5 (1969), 158-164; J. Brosch, Charismen und Ämter in der Urkirche, Bonn 1951. Cf. B. Kötting, Amt und Verfassung in der Alten Kirche. Ecclesia peregrinans, Das Gottesvolk unterwegs I (METh 54, 1), Münster 1988, 429; G. Schöllgen, Die Anfänge der Professionalisierung des Klerus und das kirchliche Amt in der Syrischen Didaskalie (JAC, Ergbd 26), Münster 1998, 93.

15 Cf. J. Colson, Ministre de Jésus-Christ ou le Sacerdoce de l’Évangile (ThH 4), Paris 1966, 191.

16 I «sette» sono chiamati per la prima volta «diaconi» da Ireneo di Lione (Adversus haereses [AH] 3, 12, 10).

17«Die Siebenzahl wohl nach Analogie der sieben Mitglieder, aus denen in den jüdischen Gemeinden meist der Ortsvorstand sich zusammensetzte. Dieser hiess deshalb geradezu “die Sieben einer Stadt” oder “die Sieben Besten einer Stadt”, während seine einzelnen Mitglieder (…) “Hirten” oder “Vorsteher” genannt wurden»: H.L. Strack, P. Billerbeck, Kommentar zum Neuen Testament aus Talmud und Midrasch, Bd. II, München 51969, 641.

18 E. Haenchen, Die Apostelgeschichte, Kritischexegetischer Kommentar, 12Göttingen 1959, 228-232; Dassmann, Ämter und Dienste, 232: «Über die Entstehung des Diakonenamtes sind keine genauere Angaben bekannt, seitdem feststeht, dass Apg 6 nicht die Bestellung von Diakonen, sondern von Beauftragten für die griechisch sprechende Gruppe der Urgemeinde beschreibt».

19 Cf. At 8,12.26-40 e 21,8, dove Filippo è chiamato «evangelista»: «Ripartiti l’indomani, giungemmo a Cesarea; ed entrati nella casa di Filippo l’evangelista, che era uno dei sette (Philippou tou euaggelistou, ontos ek ton epta), e sostammo presso di lui».

20 «Nicolaitae autem magistrum quidem habent Nicolaum, unum ex VII qui primi ad diaconium ab apostolis ordinati sunt: qui indiscrete vivunt»: AH I, 23; Harvey I, 214. Ippolito, Philosophomena VII 36; Tertulliano, De praescriptione, 33. Al contrario, Clemente di Alessandria, Strom. II, 118, 3 e III 25, 5-26, 2.

21 Cf. Is 60,17, che nella Settanta non menziona i «diaconi»; questa dev’essere un’aggiunta di Clemente; cf. 1Clem 42, 1-5: SCh 167, 173, 168-171.

22Cf. 40, 1 e 41, 2-4.

23 Colson, Ministre de Jésus-Christ, 228ss.

24 1Clem 44, 3: SCh 167, 172-173.

25 «Von den zwei erwähnten Ämtern, episkopoi und diakonoi, wurde das erste mit “Episkopen” wiedergegeben, um das sehr missverständliche “Bischöfe” zu vermeiden. Denn auf keinen Fall handelt es sich dabei um die Institution des Monepiskopats»: H.E. Lona, Der erste Clemensbrief. Kommentar zu den Apostolischen Vätern, Göttingen 1998, 446. Cf. Dassmann, Ämter und Dienste, 40.

26 J.-P. Audet, La Didachè. Instructions des Apôtres, Paris 1958, 241.

27 Ivi, 465.

28 «“Cheirotonein” heisst hier (natürlich) “wählen” und nicht “ernennen”»: Kommentar zu den Apostolischen Vätern. Die Didache, Göttingen 1989, 241.

29 Did. 14, 1-3; 15, 1.

30 Ignazio di Antiochia (s.), Lettera ai cristiani di Tralle, 3, 1: SCh 10, 113.

31 Id., Lettera ai cristiani di Smirne, 8, 1: SCh 10, 163.

32 Giustino (s.), Apol. 1, 65, 3-5, in Id., Apologies. Introduction, texte critique, traduction, commentaire et index par A. Wartelle, Paris 1987, 188-191.

33 Clemente di Alessandria (s.), Strom. VII, 1, 3: GCS 17, 6.

34 Origene, Comm. in Mat. 16, 8: GCS 40, 496.

35 Ivi, 16, 22: GCS 40, 552.

36 Ivi, 16, 22: GCS 40, 553.

37 Didascalia apostolorum, ed. by H. Connolly, Oxford 1969, 89.

38 Cf. A. Vilela, La condition collégiale des prêtres au IIIe siècle (ThH 14), Paris 1971.

39 SCh 11 bis, 66.

40 Cipriano (s.), Ep. 3, 3: «Meminisse autem diaconi debent quoniam apostolos id est episcopos et praepositos Dominus elegit, diaconos autem post ascensum Domini in caelos apostoli sibi constituerunt episcopatus sui et ecclesiae ministros. Quod si nos aliquid audere contra Deum possumus qui episcopos facit, possunt et contra nos audere diaconi a quibus fiunt».

41Id., Ep. 15, 2; 16, 3.

42 Id., Ep. 34, 1; 5, 2.

43 Id., Ep. 15, 1; 43, 1.

44 Id., Ep. 52, 1.

45 Constitutiones apostolicae (CA) II, 26, 4.5.6: SCh 320, 239-241.

46 Ivi, 30, 1-2: SCh 320, 249-251.

47 Ivi, 44, 4: SCh 320, 285.

48 CA VIII, 18, 3: SCh 336, 221.

49 Sacramentarium Serapionis, in Didascalia et Constitutiones apostolorum, ed. F.X. Funk, vol. II: Testimonia et Scripturae propinquae, Paderbornae 1905, 188. La citazione è riprodotta nella versione latina del curatore. Troviamo lo stesso uso del termine (constituat) nel canone III (XXXIII) delle Constitutiones Ecclesiae egyptiacae, De diaconis, ivi, 103-104.

50 Sacramentarium veronense, ed. L.C. Mohlberg, Roma 21966, 120s.

51 Le Sacramentaire gregorien I, ed. J. Deshuesses, Fribourg (Suisse) 1992, 96s.

52 Girolamo (s.), Ep. 146, 1: PL 22, 1192-1195: «Audio quemdam in tantam erupisse vecordiam, ut diaconos, presbyteris, id est episcopis anteferret. Nam cum Apostolus perspicue doceat eosdem esse presbyteros, quos episcopos, quid patitur mensarum et viduarum minister, ut super eos se tumidus efferat, ad quorum preces Christi corpus sanguinisque conficitur?»; Id., Comm. in Ez. VI, c. 17, 5-6 : PL 25, 183B: «Quod multos facere conspicimus, clientes et pauperes, et agricolas, ut taceam de militantium et iudicum violentia, qui opprimunt per potentiam, vel furta committunt, ut de multis parva pauperibus tribuant, et in suis sceleribus glorientur, publiceque diaconus, in Ecclesiis recitet offerentium nomina. Tantum offert illa, tantum ille pollicitus est, placentque sibi ad plausum populi, torquente eis conscientia».

53 Pseudo-Atanasio, De Trinitate 1, 27: PG 28, 1157B: «episkopos, presbyteros, diakonoi homoousioi eisin».

54Origene, Hom. in Jer. 11, 3; Concilium ancyranum, can. 14.

55 Giovanni Crisostomo (s.), Hom. 14, 3 in Act.: PG 60, 116: «Quam ergo dignitatem habuerunt illi [cioè i diaconi e i vescovi] (…). Atqui haec in Ecclesiis non erat; sed presbyterorum erat oeconomia. Atqui nullus adhuc episcopus erat, praeterquam apostoli tantum. Unde puto nec diaconorum nec presbyterorum tunc fuisse nomen admissum nec manifestum (…)».

56 «E a giusto titolo; poiché non è un uomo, né un angelo, né un arcangelo, né alcun’altra potenza creata, ma lo stesso Paraclito che ha istituito quest’ordine persuadendo uomini che sono ancora nella carne a imitare il servizio degli angeli»: De sacerdotio III, 4, 1-8: SCh 272, 142.

57 «Graecum codicem legite, et diaconum invenietis. Quod enim interpretatus est latinus, Minister; graecus habet, Diaconus; quia vere diaconus graece, minister latine; quomodo martyr graece, testis latine; apostolus graece, missus latine. Sed iam consuevimus nominibus graecis uti pro latinis. Nam multi codices Evangeliorum sic habent: “Ubi sum ego, illic et diaconus meus”»: Agostino, Sermo CCCXXIX, De Stephano martyre VI, c. III: PL 38, 1441.

58Tradition apostolique 10 : SCh 11 bis, 67.

59 Cf. Tertulliano, A son épouse 1, 7, 4: SCh 273; Id., Exhortation à la chasteté 13, 4: SCh 319.

60 «È al limes orientale dell’Impero romano che vediamo comparire diaconesse: il primo documento che le presenta e che ne è in qualche modo l’atto di nascita è la Didascalia degli apostoli (…) conosciuta soltanto dopo la pubblicazione nel 1854 (…) del suo testo siriaco (…)»: A.G. Martimort, Les diaconesses. Essai historique, Rome 1982, 31.

61 La più vasta raccolta di tutte le testimonianze su questo ministero ecclesiastico accompagnata da un’interpretazione teologica è quella di J. Pinius, «De diaconissarum ordinatione», in Acta sanctorum, sept. I, Anvers 1746, I-XXVII. La maggior parte dei documenti greci e latini citati da Pinius sono riprodotti da J. Mayer, Monumenta de viduis diaconissis virginibusque tractantia, Bonn 1938. Cf. R. Gryson, Le ministère des femmes dans l’Église ancienne (Recherches et synthèses), Gembloux 1972.

62 Norma ripresa dalle CA III, 19, 1. Sulle origini della professionalizzazione del clero, cf. G. Schöllgen, Die Anfänge der Professionalisierung des Klerus und das Kirchliche Amt in der Syrischen Didaskalie (JAC. Erg.- Bd. 26), Münster 1998.

63 Il compilatore è attento alle sfumature di vocabolario. In CA II, 11, 3, dice: «Non permettiamo ai presbiteri di ordinare (cheirotonein) diaconi, diaconesse, lettori, ministranti, cantori od ostiari, ciò spetta soltanto ai vescovi». Tuttavia egli riserva il termine cheirotonia all’ordinazione del vescovo, del presbitero, del diacono e del suddiacono (VIII, 4-5; 16-17; 21). Usa l’espressione verbale epitithenai ten (tas) cheira(s) per le diaconesse e per il lettore (VIII, 16, 2; 17, 2). Non sembra volervi attribuire una differenza di senso, poiché tutte queste imposizioni delle mani sono accompagnate da un’epiclesi dello Spirito Santo. Per i confessori, le vergini, le vedove, gli esorcisti, egli precisa che non c’è cheirotonia (VIII, 23-26). Il compilatore distingue del resto tra cheirotonia e cheirothesia, che è un gesto di semplice benedizione (cf. VIII, 16, 3 e VIII, 28, 2-3). La chirotesia può essere praticata dai preti, nel rito battesimale, nella reintegrazione dei penitenti o nella benedizione dei catecumeni (cf. II, 32, 3; II, 18, 7; VII, 39, 4).

64Cf. CA III, 20, 2; VIII, 16, 5; VIII, 28, 4; VIII, 46, 10-11.

65 Il can. 19 di Nicea (325) potrebbe essere interpretato non come rifiuto dell’imposizione delle mani a tutte le diaconesse in generale, ma come la semplice constatazione che le diaconesse del partito di Paolo di Samosata non ricevevano l’imposizione delle mani, e che «erano comunque annoverate tra i laici», e che bisognava anche ordinarle di nuovo dopo averle ribattezzate, come gli altri ministri di quel gruppo dissidente ritornati alla Chiesa cattolica. Cf. G. Alberigo, Les conciles œcuméniques, t. II/1: Les Décrets, Paris 1994, 54.

66 CA VIII, 20, 1-2: SCh 336; Metzger 221-223.

67 Epiphane, Panarion haer. 79, 3, 6, éd. K. Holl: GCS 37, 1933, p. 478.

67 Epiphane, Panarion haer. 79, 3, 6, éd. K. Holl: GCS 37, 1933, p. 478.

68 G. Alberigo, Les Conciles œcuméniques, t. II/1, 214.

69 Grégoire de Nysse, Vie de sainte Macrine 29, 1: SCh 178; Marava

   70 Rituale di ordinazione di diaconessa bizantina: Euchologe du manuscrit grec Barberini 336, in Bibliothèque Vaticane, ff 169R-17v. Citato da J.-M. Aubert, Des femmes diacres (Le Point Théologique 47), Paris 1987, 118-119.

71Cf. can. 100 (Munier 99). Inoltre, è espressamente vietato alle donne «anche colte e sante» insegnare a uomini e battezzare (cf. can. 37. 41; ivi, 86).

72 Concilio di Nîmes (394-396). Cf. J. Gaudemet, Conciles gaulois du IVe siècle (SCh 241), Paris 1977, 127-129.

73 Concilio di Orange I (441), can. 26.

74 Cf. Ambrosiaster, ed. H.I. Vogels: CSEL 81/3, Wien 1969, 268.

75 Concilio di Epaona (517), can. 21 (C. De Clercq, Concilia Galliae: 511-695: CCL 148A, 1968, 29). Le benedizioni diaconali alle donne hanno potuto moltiplicarsi, poiché il rituale non prevedeva la benedizione delle vedove, come ricorderà il II Concilio di Tours (567), can. 21 (ivi, 187).

76 Ivi, 101.

77 Cf. II concilio di Tours, can. 20 (ivi, 184).

78 Molti commentatori hanno ripreso il modello dell’Ambrosiaster nel suo commento a 1Tm 3,11 (CSEL 81, 3; G.L. Müller [Hg.], Der Empfänger des Weihesakraments. Quellen zur Lehre und Praxis der Kirche, nur Männern das Weihesakrament zu spenden, Würzburg 1999, 89): «Ma i Catafrigi, cogliendo quest’occasione di cadere nell’errore, sostengono nella loro folle audacia, col pretesto che Paolo si rivolge alle donne dopo i diaconi, che bisogna ordinare anche diaconesse. Sanno però che gli apostoli hanno scelto sette diaconi (cf. At 6,1-6); forse non si trovava allora nessuna donna adatta, mentre leggiamo che insieme agli undici apostoli c’erano sante donne (cf. At 1,14)? (…) Invece egli prescrive alla donna di tacere in Chiesa (cf. 1Cor 14,34-35)». Cf. anche Giovanni Crisostomo (s.), In 1 Tm hom. 11: PG 62, 555; Epifanio, Haer. 79, 3 (Müller, Quellen, 88); Concilio di Orange (Müller, Quellen, 98); Concilio di Dovin (Armenia, 527): «Feminis non licet ministeria diaconissae praestare nisi ministerium baptismi» (Müller, Quellen, 105); Isidoro di Siviglia, De eccl. off. II, 18, 11 (Müller, Quellen, 109). Decretum Gratiani, can. 15 (Müller, Quellen, 115); Magister Rufinus, Summa decretorum, can. 27, q. 1 (Müller, Quellen, 320); Roberto di Yorkshire, Liber poenitaentialis, q. 6, 42 (Müller, Quellen, 322); Tommaso D’Aquino (s.), In 1Tm III, 11 (Müller, Quellen, 333); ecc.

79 Cf. P. Vanzan, «Il diaconato permanente femminile. Ombre e luci», in La Civiltà cattolica (1999) I, 439-452. L’autore ricorda le discussioni avvenute tra R. Gryson, A. G. Martimort, C. Vagaggini, C. Marucci. Cf. L. Scheffczyk (Hg.), Diakonat und Diakonissen, St. Ottilien 2002, in particolare M. Hauke, «Die Geschichte der Diakonissen. Nachwort und Litteraturnachtrag zur Neuauflage des Standardwerkes von Martimort über die Diakonissen», 321-376.

 

III. La scomparsa del diaconato permanente

1 Concilio di Neocesarea (314 o 319), can. 15, in Mansi, Sacrorum Conciliorum nova et amplissima collectio, t. 2, Paris – Leipzig 1901 (ried.), 539.

2 Isidoro di Siviglia, De ecclesiasticis officiis 2, 8.

3 Ci sono 100 diaconi a Costantinopoli al tempo di Giustiniano. Cf. Giustiniano, Novellae III, 1 (Corpus iuris civilis, ed. Kriegel, t. III, Leipzig 1887, 20).

4Cf. CA II, 28, 6.

5 Cf. cann. 21.22.43, in P.-P. Joannu, Discipline générale antique IIe-IXe siècle, I-2, Roma 1962, 139-148.

6 Concilio di Cartagine sub Genethlio (390), can. 2, in C. Munier, Concilia Africae: CCSL 259, Turnhout 1974, 13.

7Cf. can. 25: ivi, 108-109.

8 Leone I Magno (s.), Ep. 14, 4 ad Anastasio di Tessalonica: PL 54, 672-673.

9 Leone I Magno (s.), Ep. 14, 4.

10 Cf. sopra c. II, nota 40.

11Cf. G. Alberigo, Les Conciles œcuméniques. Les Décrets, t. II/1, Paris, 1994, 54.

12 Il trattatello De iactantia Romanorum diaconum: CSEL 50, 193-198 rimprovera ai diaconi di voler salire al grado dei presbiteri, di rifiutare i compiti di servizio e di non occuparsi che di canto liturgico.

13 Girolamo (s.), Lettera 146 a Evangelus: PL 22, 1192-1195.

14 Pseudo-Dionigi, Gerarchia ecclesiastica V, 7; V, 6: PG 3, 506-508.

15 Leone I Magno (s.), Ep. 6, 6 ad Anastasio di Tessalonica: PL 54, 620. Egli stesso era diacono quando fu eletto all’episcopato. Cf. anche L. Duchesne, Le Liber pontificalis I, De Boccard, Paris 1981, 238-239.

16 Cf. Eusebio di Cesarea, Hist. Eccl. VI, 43.

17 Cf. Le decretali di Siricio  [PL 13, 1142-1143]; Le decretali di Innocenzo I [PL 20, 604-605].

18 Pseudo-Girolamo, Ep. XII de septem ordinibus ecclesiae: PL 30, 150-162.

19 Cf. C. Munier, Les «Statuta Ecclesiae antiqua», Edition-études critiques, Paris 1960, 95.99. L’autore vi aggiunge il salmista. Isidoro di Siviglia, Etimologie VII, 12: PL 82, 290 parlerà di nove gradi, comprendendo il salmista. Per lui, i nove ordines sono chiamati anche sacramenta: cf. De ecclesiasticis officiis 2, 121.

20 Cf. L.C. Mohlberg, Sacramentarium veronense (RED.F I), Roma 1956, 120-121.

l, 236-237.

21 P.-P. Joannu, Discipline générale antique IIe-IXe siècle. Les canons des Conciles œcuméniques, I, 1, 132-134.

22 Cf. F. Mercenier, F. Paris, La prière des Églises de rite byzantin, 2 voll., Prieuré d’Ainay s/Meuse 1937. Dal secolo VIII il vocabolario si è fissato: il termine cheirotonia è ora riservato alle ordinazioni del vescovo, del prete e del diacono, mentre cheirothesia è usato per gli ordini inferiori. Così il can. 15 del concilio di Nicea II (ed. Alberigo, t. II/1, 149). Cf. C. Vogel, «Chirotonie et chirothésie», in Irénikon 37 (1972) 7-21; 207-238.

23 Lo Pseudo-Girolamo, De septem ordinibus, dice che i diaconi «non si allontanino dal tempio del Signore (…). Essi sono l’altare di Cristo (…). Senza il diacono, il prete non ha nome né origine né funzione»: PL 30, 153.

24Cf. Concilio di Aix-la-Chapelle (817), can. 11 (C.J. Hefele, H. Leclercq, Histoire des Conciles, t. IV, Paris 1910, 27).

25 C. Vogel, Le Pontifical romano-germanique du dixième siècle (Studi e testi 226-227-228), 3 voll., Vatican 1963-72.

26 Cf. M. Andrieu, Les ordines romani du haut moyen âge (SSL 24), Louvain 1951.

27 I vari pontificali romani del secolo XII hanno come matrice comune il Pontificale romano-germanico del secolo X. Cf. M. Andrieu, Le Pontifical romain au moyen âge, t. I: Le Pontifical du XIIe siècle (Studi e testi 86), Vatican 1938. Quest’ultimo sarà ampiamente diffuso nella Chiesa latina e sarà messo a punto da Innocenzo III. Cf. Id., Le Pontifical romain au moyen âge, t. II: Le Pontifical de la Curie romaine du XIIIe siècle (Studi e testi 87), ivi, 1940. A sua volta, sarà accolto nel Pontificale composto da Guillaume Durand, vescovo di Mende alla fine del XIII secolo. Cf. Id., Le Pontifical romain au moyen âge, t. III: Le Pontifical de Guillaume Durand (Studi e testi 88), ivi, 1940. Servirà come modello all’edizione a stampa del Burchard di Strasburgo nel 1485.

28Cf. Alberigo, Les Conciles œcumeniques…, t. II/1, 419 e 435.

29 Cf. G. Khouri-Sarkis, «Le livre du guide de Yahya ibn Jarîr», in Orient syrien 12 (1967), 303-318.

30 «La chirotonia o ordinazione si faceva anche in passato per le diaconesse: e per tale ragione il rito relativo a esse era riportato nei manoscritti antichi. In passato ci fu bisogno delle diaconesse specialmente per il battesimo delle donne (…)» (citato da Martimort, Les diaconesses, 167).

31 Scholia in Concilium chalcedonense: PG 137, 441, citato da Martimort, Les diaconesses, 171.

32 Cap. 45 (ed. A. Werminghoff, Concilia aevi karolini, t. I, 639).

33Cf. F. Unterkircher, Das Kollektar-Pontifikale des Bischofs Baturich von Regensburg (817-848) (Spicilegium Friburgense 8), Fribourg 1962.

34 Tra il De ordinatione abbatissae e il De benedictione et consecratione virginum, il De ordinatione diaconissae è ridotto ad alcune righe e si esprime così: «Diaconissa olim, non tamen ante annum quadragesimum, ordinabatur hoc modo (…)». Cf. anche Andrieu, Le Pontifical romain au moyen âge, t. III (Lib. I, XXI-XXIII), 411.

 

  1. La sacramentalità del diaconato dal XII al XX secolo

1 Per tali oscillazioni cf. L. Ott, Das Weihesakrament (HbDG IV/5), Freiburg i. Br. 1964.

2 Pietro Lombardo introduce nel IV Sent. d. 24 il trattato De ordinibus ecclesiasticis, che, tranne alcune righe, è stato copiato da Ugo di San Vittore († 1141), da Ivo di Chartres († 1040-1115) e dal Decretum Gratiani; tutti questi autori dipendono a loro volta dal De septem ordinibus Ecclesiae (secoli V-VII), uno dei primi trattati della Chiesa occidentale (cf. sant’Isidoro di Siviglia) dedicati all’esposizione delle competenze dei diversi gradi della gerarchia.

3 Pietro Lombardo, IV Sent. d24 c 14.

4Tommaso d’Aquino (s.), In IV Sent. d24-25, Suppl. qq 34-40, SCG IV c. 74-77, De art. fidei et Eccl. sacramentis.

5Id., In IV Sent. d24 q2 a1 ad 3.

6 Ivi, d24 q2 a1 sol. 1.

7 Ivi, d24 q2 a1 sol. 2.

8 Ivi.

9 Ivi, d24 q3 a2 sol. 2.

10Ivi.

11 Cf. Id., In IV Sent. d7 q2 ad 1; STh III q63 a3.

12 Id., In IV Sent. d24 q1 a2 sol. 2.

13 STh q67 a1.

14 Riguardo all’episcopato, c’è una tendenza ad affermare che sia «ordo et sacramentum, non quidem praecise distinctum a sacerdotio simplici, sed est unum sacramentum cum ipso, sicut perfectum et imperfectum»: Durandus de S. Porciano, Super Sententias Comm. libri quatuor, Parisii 1550, libr. IV d24 q6.

15 Ivi, q2 per ciò che se ne è detto in a), b), c) e d).

16Ivi, q3.

17 Cf. DS 1767, 1776.

18 Cf. ivi, 1765, 1772.

19 Cf. ivi, 1766, 1773.

20 Cf. ivi, 1765.

21 Cf. ivi, 1767, 1774.

22Cf. ivi, 1776.

23 Cf. CT III, 682s, 686, 690; VII/II, 603, 643.

24 Cf. K.J. Becker, Wesen und Vollmachten des Priestertums nach dem Lehramt (QD 47), Freiburg 1970, 19-156; J. Freitag, Sacramentum ordinis auf dem Konzil von Trient. Ausgeblendeter Dissens und erreichter Konsens, Innsbruck 1991, 218ss.

25Cf. Catechismus romanus, p. II, can. VII, q. 20.

26 Cf. F. De Vitoria, Summa sacramentorum, n. 226, Venezia 1579, f. 136v; D. De Soto, In Sent. IV d24 q1 a4 concl. 5 (633ab).

27 Cf. R. Bellarminus (s.), Controversiarum de sacramento ordinis liber unicus, in Id., Opera omnia, vol. V, Paris 1873, 26.

28 Ivi, 27s.

29 Ivi, 30.

30 Cf., a favore: AS II/II, 227s, 314s, 359, 431, 580; esprimono dubbi o mettono in questione la sacramentalità del diaconato: AS II/II, 378, 406, 447s.

31 «Quod attinet ad Act 6,1-6, inter exegetas non absolute constat viros de quibus ibi agitur diaconis nostris correspondere (…)»: AS III/I, 260.

32 «De indole sacramentali diaconatus, statutum est, postulantibus pluribus (…) eam in schemate caute indicare, quia in Traditione et magisterio fundatur. Cf. praeter canonem citatum Tridentini: Pius XII, const. apost. Sacramentum ordinis [DS 3858 s] (…). Ex altera tamen parte cavetur ne concilium paucos illos recentes auctores, qui de hac re dubia moventur, condemnare videatur», ivi.

33 Cf. AS III/I, 260-264; AS III/II, 214-218.

34 Il testo originale parlava di «in ministerio episcopi». Sull’origine e sulle variazioni di tale formula, cf. A. Kerkvoorde, «Esquisse d’une théologie du diaconat», in P. Winniger, Y. Congar (ed.), Le diacre dans l’Église et le monde d’aujourd’hui (UnSa 59), Paris 1966, 163-171, il quale avverte da parte sua: «Si avrebbe torto (…) di metterla alla base di una teologia futura del diaconato».

35 Espressione ambigua «nam sacerdotium est ministerium», in AS III/VIII, 101.

36 Si interpretano come segue le parole degli Statuta: «Significant diaconos non ad corpus et sanguinem Domini offerendum sed ad servitium caritatis in Ecclesia», ivi.

37 «Christus (…) consecrationis missionisque suae per Apostolos suos, eorum successores, videlicet episcopos participes effecit, qui munus ministerii sui, vario gradu, variis subiectis in Ecclesia legitime tradiderunt»: LG 28a; EV 1/354.

38 «Sic ministerium ecclesiasticum divinitus institutum diversis ordinibus exercetur ab illis qui iam ab antiquo episcopi, presbyteri, diaconi vocantur»: ivi.

39 DS 1765, 1776.

40 Cf. i vari riferimenti a Trento nei dibattiti conciliari: alcuni identificavano ministri con diaconi, sebbene la loro equivalenza semantica non giustifichi che si faccia subito la loro identificazione teologica; altri consideravano come definito dogmaticamente a Trento che il diaconato costituisca il terzo grado della gerarchia, una valutazione che sembra andare oltre ciò che vi era affermato. Cf. sopra note 23 e 30.

41Cf. AS III/I, 260.

42 Cf. Paolo VI, lett. ap. Sacrum diaconatus ordinem,18.6.1967: AAS 59 (1967), 698; EV 2/1368ss.

43Cf. AAS 59 (1967), 702; EV 2/1368ss.

44 Cf. Paolo VI, lett. ap. Ad pascendum, 15.8.1972: AAS 64 (1972), 536, 534, 537; EV 4/1775.1779.1780.

45Cf. J. Beyer, «Nature et position du sacerdoce», in NRTh 76 (1954), 356-373; 469-480; Id., «De diaconatu animadversiones», in Periodica 69 (1980), 441-460.

46 Beyer è soprattutto in disaccordo con la valutazione della prudenza, fatta da G. Philips. Poiché il Concilio vuole agire non dogmatice, sed pastoraliter, anche un’affermazione molto più esplicita non implicherebbe ipso facto la condanna della sentenza contraria. Di qui, per Beyer, la ragione della prudenza sarebbe dovuta al fatto che effettivamente, per quel che riguarda la sacramentalità del diaconato, la haesitatio è «manifesta et doctrinalis quidem».

47 Secondo Beyer, il termine ministri ha un senso generico; non si è voluto affermare dogmaticamente se non ciò che la riforma protestante rifiutava. Il senso nel quale si invoca Trento va spesso «ultra eius in concilio Tridentino pondus et sensum».

48 Il motivo più grande di tale incertezza sta nel fatto di affermare che «diaconum non ad sacerdotium sed ad ministerium ordinari, atque nihil in hoc ministerio agere diaconum quin et laicus idem facere non possit».

49 «Sacramento ordinis ex divina institutione inter christifideles quidam, charactere indelebili suo signantur, constituuntur sacri ministri, qui nempe consecrantur et deputantur ut, pro suo quisque gradu, in persona Christi Capitis munera docendi, sanctificandi et regendi adimplentes, Dei populum pascant»: CIC, can. 1008; EV 8.

50 Nei cann. 757, 764, 766, 767 (l’omelia è riservata «sacerdoti aut diacono», mentre «ad praedicandum» si possono ammettere anche laici); 835, 861, 910, 911. 1003 (i diaconi non sono ministri dell’unzione dei malati, poiché «unctionem infirmorum valide administrat omnis et solus sacerdos»: applicazione del principio che parla del diacono come «non ad sacerdotium, sed ad ministerium»?); 1079, 1081, 1108, 1168, 1421, 1425, 1428, 1435 (possono essere «giudici», e ciò fa parte del potere di governo o di giurisdizione).

51 Riflessione necessaria, perché si mantiene il principio che il pastor proprius e l’ultimo moderator della plena cura animarum non può essere che colui che ha ricevuto l’ordinazione sacerdotale (il sacerdos). Saremmo così di fronte a un caso limite, costituito dalla figura di un sacerdos (che, di fatto, non è parochus, benché ne abbia tutte le attribuzioni) e dalla figura di un diaconus (che è quasiparochus, poiché ha, di fatto, la responsabilità della cura pastoralis, anche se non nella sua globalità, perché gli mancano i poteri sacramentali relativi all’eucaristia e alla penitenza).

52 «Specificam configurationem cum Christo, Domino et Servo omnium (…) specificam diaconi identitatem (…) is enim, prout unici ministerii ecclesiastici particeps, est in Ecclesia specificum signum sacramentale Christi servi»: Congregatio de institutione catholica, Ratio fundamentalis institutionis diaconorum permanentium, Institutio diaconorum, 22.2.1998, n. 5; EV 17/162.

53 «Prout gradus ordinis sacri, diaconatus characterem imprimit et specificam gratiam sacramentalem communicat (…) signum configurativum-distinctivum animae modo indelebili impressum, quod (…) configurat Christo, qui diaconus, ideoque servus omnium, factus est»: Institutio diaconorum, n. 7; EV 17/166.

 

  1. La restaurazione del diaconato permanente nel Concilio Vaticano II

   1 «Diaconatus in futurum tamquam proprius ac permanens gradus hierarchiae restitui poterit»: LG 29b; EV 1/360.

2 «Ordo diaconatus ut status vitae permanens restauretur ad normam constitutionis de Ecclesia»: AG 16f; EV 1/1140.

3 «Exoptat haec sancta synodus, ut institutum diaconatus permanentis, ubi in desuetudinem venerit, instauretur»: OE 17; EV 1/478.

4Cf. J. Hornef, P. Winninger, «Chronique de la restauration du diaconat (1945-1965)», in P. Winninger, Y. Congar (ed.), Le diacre dans l’Église, Paris 1966, 205-222.

5 Un’ampia documentazione di studi teologici e storici fu pubblicata in Germania sotto la direzione di K. Rahner, H. Vorgrimler, Diaconia in Christo. Über die Erneuerung des Diakonates (QD 15/16), Freiburg i. Br. 1962.

6Cf. Hornef, Winninger, «Chronique», 207-208.

7 Per esempio, Yves Congar esplora l’impatto della teologia del popolo di Dio e dell’ontologia della grazia su una comprensione rinnovata dei ministeri che aprirebbe la possibilità di restaurare il diaconato. Cf. Y. Congar, «Le Diaconat dans la théologie des ministères», in Winninger, Congar (ed.), Le diacre dans l’Eglise, soprattutto 126s.

8 Il Concilio ha discusso il primo schema del De Ecclesia a partire dalla 31ª Congregazione generale del 1° dicembre 1962 sino alla 36ª Congregazione generale del 7 dicembre 1962.

9Joseph card. Bueno y Monreal (31 CG, 1° dicembre 1962), in AS I/IV, 131. Da parte sua, mons. Raphael Rabban chiese perché lo schema facesse menzione «de duobus gradibus ordinis, de episcopatu scilicet et de sacerdotio» e non del diaconato «qui ad ordinem pertinet»: ivi, 236.

10 Cf. G. Caprile, Il concilio Vaticano II. Il primo periodo: 1962-1963, Roma, 1968, 337; 410; 413; 494; 498; 501; 536.

11 Il Concilio discusse il capitolo sulla struttura gerarchica della Chiesa dal 4 al 30 ottobre 1963.

12Julius card. Döpfner (42 CG, 7.10.1963), in AS II/II, 227-230.

13 Joannes card. Landázuri Ricketts (43 CG, 8.10.1963), ivi, 314-317.

14 Leo Joseph card. Suenens (43 CG, 8.10.1963), ivi, 317-320.

15 Cf. mons. Franciscus Seper (44 CG, 9.10.1963), ivi, 359; mons. Bernardus Yago (45 CG, 10.10.1963), ivi, 406; mons. Joseph Clemens Maurer (45 CG, intervento scritto), ivi, 412; e mons. Paul Yü Pin (45 CG), ivi, 431.

16 Cf. Paul card. Richaud (44 CG, 9.10.1963), ivi, 346-347; mons. Bernardus Yago, ivi, 406.

17 Mons. F. Seper, ivi, 359.

18 Card. J. Landázuri Ricketts, ivi, 315; card. J. Döpfner, ivi, 229.

19 Cf. mons. J. Maurer, ivi, 411; mons. Emmanuel Talamás Camandari (46 CG, 11.10.1963), ivi, 450, e mons. George Kémére (47 CG, 14.10.1963), ivi, 534.

20 Cf. card. J. Döpfner, ivi, 227; card. J. Landázuri Ricketts, ivi, 314.

21 Cf. card. L. Suenens, ivi, 317; mons. Jozyf Slipyj (46 CG, 10.10.1963), ivi, 445.

22 Card. J. Döpfner, ivi, 227.

23 Cf. mons. Armandus Fares (47 CG, 14.10.1963), ivi, 530-531; mons. Narcissus Jubany Arnau (48 CG, 15.10.1963), ivi, 580; mons. J. Maurer, ivi, 411.

24Card. J. Landázuri Ricketts, ivi, 314-315; card. L. Suenens, ivi, 318; mons. F. Seper, ivi, 319.

25Mons. P. Yü Pin, in AS II/II, 431.

26 Mons. B. Yago, ivi, 407.

27 Mons. J. Maurer, ivi, 410.

28 P. Anicetus Fernández, o.p. (45 CG, 10.10.1963), ivi, 424; mons. Joseph Drzazga (49 CG, 16.10.1963), ivi, 624.

29 Mons. Franciscus Franic (44 CG, 10.10.1963), ivi, 378; mons. Dinus Romoli (48 CG, 15.10.1963), ivi, 598; mons. Petrus Cule (47 CG, 14.10.1963), ivi, 518.

30 Mons. Joseph Carraro, ivi, 525-526.

31 Card. F. Spellman, ivi, 83; p. A. Fernandez, ivi, 424; mons. Victorius Costantini, ivi, 447.

32 Il 15 settembre 1964, mons. Aloysius Eduardo Henriquez Jimenez lesse la relatio spiegando il testo della Commissione dottrinale sul presbiterato e sul diaconato prima che i padri procedessero al voto sul capitolo della LG sulla gerarchia. Spiegando la posizione del testo, affermò che il potere nella Chiesa era partecipato in diversi modi e in diversi gradi dai vescovi, dai preti e dai diaconi. Come a Trento, il testo insegnava che il diaconato apparteneva alla sacra gerarchia, di cui occupa il grado inferiore. Ordinati per il ministero e non per il sacerdozio, i diaconi hanno ricevuto la grazia sacramentale e sono stati incaricati del triplice servizio della liturgia, della parola e della carità. Il diaconato potrebbe essere conferito a uomini sposati. Cf. AS III/II, 211-218. Mons. Franciscus Franic presentò le opinioni opposte: ivi 193-201.

33K. Rahner, «L’enseignement de Vatican II sur le diaconat et sa restauration», in Winninger, Congar (ed.), Le diacre dans l’Église, 227.

34 Cf. A. Borras, B. Pottier, La grâce du diaconat, Bruxelles 1998, 22-40.

35 Cf. A. Kerkvoorde, «Esquisse d’une theologie du diaconat», in Winninger, Congar (ed.), Le diacre dans l’Église, 157-171.

36 Borras, Pottier, La grâce du diaconat, 20.

37 Cf. Kerkvoorde, «Esquisse d’une theologie du diaconat», 155s.

 

  1. La realtà del diaconato permanente oggi

1 Queste informazioni e la loro analisi ci sono state gentilmente trasmesse in occasione della sessione dell’autunno 1999 della Commissione dal prof. Enrico Nenna, dell’Ufficio centrale di statistica della Chiesa (Segreteria di stato).

2 Se ora si paragona il numero di preti al numero di diaconi nei diversi continenti, si ritrovano gli stessi divari di cui sopra. Mentre nell’insieme dell’America ci sono 7,4 preti ogni diacono (soprattutto a motivo del gran numero di diaconi nell’America del Nord), in Asia si contano 336 preti ogni diacono. In Africa ci sono 87 preti ogni diacono permanente, in Europa ce ne sono 27 e in Oceania 31. Il peso relativo dei diaconi nell’insieme del ministero ordinato è dunque molto vario da una regione all’altra.

3 Un’altra fonte d’informazione ci dà la lista dei Paesi nei quali i diaconi permanenti sono più numerosi: Stati Uniti (11.589), Germania (1.918), Italia (1.845), Francia (1.222), Canada (824), Brasile (826).

4Cf. H. Legrand, «Le diaconat dans sa relation à la théologie de l’Église et aux ministères. Réception et devenir du diaconat depuis Vatican II», in A. Haquin, P. Weber (dir.), Diaconat, 21e siècle, Bruxelles-Paris-Montréal 1997, 13-14.

5 Per i punti seguenti cf. J. Kabasu Bamba, Diacres permanents ou catéchistes au Congo-Kinshasa, Ottawa 1999, testo ciclostilato.

6 L’autore cita qui i monss. W. Van Bekkum, E. D’Souza (India), J.F. Cornelis (Élisabethville) e al tempo della preparazione del Concilio gli ordinari (in maggioranza europei) del Congo e del Ruanda: ivi, 190.

7AG 17a; EV 1/1141. Si può pensare qui agli interventi dei monss. B. Yago e P. Yü Pin, ricordati in un capitolo precedente.

8 Cf. Kabasu Bamba, Diacres permanents…, 195, che si riferisce a M. Singleton, «Les nouvelles formes de ministère en Afrique», in Pro mundi vita 50 (1974), 33.

9 L’arcivescovo di Santiago del Cile riferisce così le obiezioni di alcuni preti: «Dicen por ejemplo que el Diaconado es un compromiso innecesario, ya que sus funciones las pueden cumplir laicos y laicas ad tempus: si resulta se les prorroga el mandato, de lo contrario, no se les renueva»: mons. C. Oviedo Cavada, «La promoción del diaconado permanente», in Iglesia de Santiago (Chili) 24 (1992), 25.

10 Cf. qui un lungo testo pubblicato dalla diocesi di San Cristóbal de Las Casas, Directorio diocesano para el diaconado indígena permanente, 1999.

11 A seconda dei paesi, tali collaboratori ricevono denominazioni diverse: «permanenti in pastorale», «lavoratori o animatori pastorali», «ausiliari pastorali», «operatori laici di pastorale», «ausiliari di parrocchia», «assistenti parrocchiali», «assistenti pastorali» (Pastoralassistenten und Pastoralassistinnen)… Cf. A. Borras, Des laïcs en responsabilité pastorale?, Paris 1998.

12NCCB, «National Study of the Diaconate. Summary Report», in Origins 25 (1996) 30.

13 Cf., ad esempio, P. Maskens, «Une enquête sur les diacres francophones de Belgique», in Haquin, Weber (dir.), Diaconat, 21e siècle, 217-232.

14 Così B. Sesboüé, «Quelle est l’identité ministérielle du diacre?», in L’Église à venir, Paris 1999, 255-257.

15 Cf., ad esempio, il testo della Congregatio pro clericis, Diaconatus originem, Directorium pro ministerio et vita diaconorum permanentium, 22.2.1998, n. 22, in AAS 90 (1998), 889; EV 17/284ss.

16Diaconatus originem, n. 39: AAS 90 (1998), 900; EV 17/353. Il testo aggiunge al paragrafo seguente: «È molto importante che i diaconi possano adempiere, secondo le loro possibilità, il proprio ministero in pienezza: nella predicazione, nella liturgia e nella carità; e che non siano relegati in compiti marginali, in funzioni di supplenza o in compiti che possono essere ordinariamente assolti da fedeli non ordinati».

17 Cf. Institutio diaconorum, n. 9: «Infine il munus regendi si esercita nella dedizione alle opere di carità e di assistenza e nell’animazione delle comunità o dei settori della vita ecclesiale, specialmente in ciò che riguarda la carità. Si tratta qui del ministero più caratteristico del diacono» (sottolineatura nostra): AAS 90 (1998), 848; EV 17/172.

18 «Non è la sposa che è ordinata, e tuttavia la missione affidata al diacono obbliga la coppia a ridefinirsi, in qualche modo, in funzione di questo ministero»: M. Cacouet, B. Viole, Les diâcres, citato in un documento di riflessione sul ruolo della sposa del diacono, Québec 1993. Perciò in molti paesi la sposa è associata al marito durante la sua formazione iniziale e partecipa con lui alle attività di formazione continua.

19 Nota della Commissione episcopale francese del clero citata da F. Deniau, «Mille diâcres en France», in Etudes (1995) 383, 526.

20 Ivi, 527. Quest’orientamento dei vescovi è stato confermato nel 1996 in occasione della loro riunione di Lourdes, nella quale hanno manifestato il desiderio che «l’immagine data dai diaconi non sia quella di supplenza dei preti, ma della comunione con loro nell’esercizio del sacramento dell’ordine». «Points d’attention…», in Documentation catholique, (1996) 2149, 1012s.

21 J.G. Mesa Angulo, «Aportes para visualizar un horizonte pastoral para el diaconado permanente en América Latina, hacia el tercer milenio», in CELAM, I Congreso de diaconado permanente, Lima, agosto 1998. Documento di lavoro.

22 Un certo numero di compiti saranno evidentemente riservati al diacono dal diritto canonico, ma essi non esauriscono tutta l’attività del diacono.

23Corsivo nostro.

24 R. Pagé, Diaconat permanent et diversité des ministères. Perspectives du droit canonique, Montréal 1998, 61.

25 V. Gerardi, «El diaconado en la Iglesia», in CELAM, I Congreso de diaconado permanente, 8, che fa riferimento al I Congresso internazionale tenutosi a Torino nel 1977.

 

VII. Approccio teologico del diaconato nella linea del Concilio Vaticano II

   1Cf. AAS 59 (1967), 697-704; EV 2/1368ss; AAS 60 (1968), 369-373; AAS 64 (1973), 534-540; EV 4/1771; Codex iuris canonici, Città del Vaticano 1983; EV 8; Catechismus catholicae Ecclesiae (CCE), Città del Vaticano 1997.

2 È il caso dei due recenti documenti di orientamento: Congregatio de institutione catholica, Institutio diaconorum, Ratio fundamentalis institutionis diaconorum permanentium; Congregatio pro clericis, Diaconatus originem, Directorium pro ministerio et vita diaconorum permanentium, Città del Vaticano 1998. Secondo il card. P. Laghi, la Ratio fundamentalis è un documento «di ordine eminentemente pedagogico e non dottrinale» e, secondo il card. D. Castrillón Hoyos, il Directorium «intende presentare linee pratiche»: L’Osservatore romano 11.3.1998, 6-7.

3 «Christus, “sedens ad dexteram Patris” et Spiritum Sanctum in suum effundens corpus, quod est Ecclesia, iam operatur per sacramenta a se instituta ad suam gratiam communicandam (…). Efficaciter gratiam efficiunt quam significant propter Christi actionem et per Spiritus Sancti virtutem»: CCE 1084.

4 «Sunt efficacia quia in eis ipse Christus operatur: ipse est qui baptizat, ipse est qui in suis agit sacramentis ut gratiam communicet quam sacramentum significat (…). Hic est sensus affirmationis Ecclesiae: sacramenta agunt ex opere operato (…), i. e., virtute salvifici operis Christi, semel pro semper adimpleti»: CCE 1127s.

5 Cf. CCE 1536: «Ordo est sacramentum per quod missio a Christo ipsius apostolis concredita exerceri pergit in Ecclesia usque ad finem temporum: est igitur ministerii apostolici sacramentum. Tres implicat gradus: Episcopatum, presbyteratum et diaconatum».

6 Per l’applicazione del passo della lavanda dei piedi ai diaconi, cf. Didaskalia XVI, 13 (tr. F. Nau, Paris 1912, 135s) e H. Wasserschleben, Die irische Canonensammlung, Leipzig 1885, 26: «Diaconus [fuit] Christus, quando lavit pedes discipulorum»; cf. K. Rahner, H. Vorgrimmler, Diaconia in Christo, Freiburg 1962, 104. Recentemente W. Kasper ha proposto di vedere nella lavanda dei piedi e nelle parole di Gesù in Gv 13,15 «die Stiftung des Diakonats», in «Der Diakon in ekklesiologischer Sicht angesichts der gegenwärtigen Her- ausforderungen in Kirche und Gesellschaft», in Diaconia in Christo 32 (1997) 3-4, 22. In realtà, è l’insieme del passo di Mc 10,43-45 che Didaskalia III, 13 cita a proposito dei diaconi. Da parte sua, sant’Ignazio di Antiochia ritiene che si è affidato ai diaconi «il servizio di Gesù Cristo» (Magn. 6, 1) e san Policarpo li esorta a camminare nella verità del Signore, che si è fatto il «diakonos» di tutti (Fil 5,2).

7 La discussione esegetica attuale sulla valorizzazione di At 6,1-6 in quanto origine del diaconato risale ai testi patristici: sant’Ireneo (II secolo) (AH I, 26, 3; III, 10) vede nell’ordinazione dei «sette» l’inizio del diaconato; san Giovanni Crisostomo (verso il 400), in Acta Apost. 14, 3 (PG 60, 115s) non considera i «sette» come diaconi, benché interpreti il loro incarico come un’ordinazione e una partecipazione alla missione apostolica. Questa seconda opinione fu assunta dal sinodo In Trullo II (691), sinodo che per la Chiesa ortodossa ha un valore di concilio ecumenico: cf. Conc. Quinisextum, can. 16 (Mansi 11, 949; ed. Ioannou, I/1, 132-134).

8 La distinzione in tre gradi appariva con chiarezza in epoca postapostolica, forse per la prima volta con sant’Ignazio di Antiochia, Ad Trall. 3, 1. Sul problema, cf. E. Dassmann, Ämter und Dienste in der frühchristlichen Gemeinden, Bonn 1994; E. Cattaneo, I ministeri della Chiesa antica. Testi patristici dei primi tre secoli, Milano 1997.

9 «Sic ministerium ecclesiasticum divinitus institutum diversis ordinibus exercetur ab illis qui iam ab antiquo episcopi, presbyteri, diaconi vocantur»: LG 28a; EV 1/354; con riferimenti a Trento, DS 1765 («[…] in Ecclesiae ordinatissima dispositione plures et diversi essent ministrorum ordines […] ab ipso Ecclesiae initio […]») e ivi, 1776 («[…] hierarchiam, divina ordinatione institutam, quae constat ex episcopis, presbyteris et ministris […]»).

10 «Non tamquam merus ad sacerdotium gradus est existimandus, sed indelebile suo charactere ac precipua sua gratia insignis ita locupletatur, ut qui ad ipsum vocentur, ii mysteriis Christi et Ecclesiae stabiliter inservire possint»: Paolo VI, Sacrum diaconatus ordinem: AAS 59 (1967), 698; EV 2/1369. «Diaconi missionem et gratiam Christi, modo speciali, participant. Ordinis sacramentum eos signat sigillo (“charactere”) quod nemo delere potest et quod eos configurat Christo qui factus est “diaconus”, id est, omnium minister»:CCE 1570. «Prout gradus ordinis sacri, diaconatus characterem imprimit et specificam gratiam sacramentalem communicat. Character diaconalis est signum configurativum-distinctivum animae modo indelebili impressum (…)»: Institutio diaconorum, n. 7; EV 17/166. Nella misura nella quale il can. 1008 del CIC fa anche riferimento al diaconato, si può pure considerare affermato il suo carattere indelebile.

11 «Quoniam vero in sacramento ordinis, sicut et in baptismo et confirmatione, character imprimitur, qui nec deleri nec auferri potest: merito sancta Synodus damnat eorum sententiam, qui asserunt, Novi Testamenti sacerdotes temporariam tantummodo potestatem habere, et semel rite ordinatos iterum laicos effici posse, si verbi Dei ministerium non exerceant»: Conc. di Trento, DS 1767.

12 Cf. Tommaso d’Aquino, In IV Sent. d7 q2 ad1; Sth III q63 a3.

13 Benché non faccia allusione esplicita alla dottrina del «carattere», per quanto riguarda il diaconato il Directorium (Diaconatus originem, n. 21; EV 17/318) afferma: «Sacra ordinatio, semel valide recepta, numquam evanescit. Amissio tamen status clericalis fit iuxta normas iure canonico statutas».

14 Il Directorium (Diaconatus originem, n. 28) parla della «differenza essenziale» che esiste tra il ministero del diacono all’altare e quello di ogni altro ministero liturgico; tuttavia, non rinvia alla LG 10, ma alla LG 29: «Constat eius diaconiam apud altare, quatenus a sacramento ordinis effectam, essentialiter differre a quolibet ministerio liturgico, quod pastores committere possint christifidelibus non ordinatis. Ministerium liturgicum diaconi pariter differt ab ipso ministerio sacerdotali»; EV 17/333.

15 «(…) gratia sacramentali roborati»: LG 29a; EV 1/359; «(…) gratiam sacramentalem diaconatus (…)»: AG 16f; EV 1/1140.

16 «Missionis autem et gratiae supremi Sacerdotis peculiari modo participes sunt inferioris quoque ordinis ministri, imprimis diaconi, qui mysteriis Christi et Ecclesiae servientes (…)» LG 41d; EV 1/393.

17 «(…) Diaconatus permanens (…) signum vel sacramentum ipsius Christi Domini, qui non venit ministrari, sed ministrare»: Paolo VI, Ad pascendum: AAS 54 (1972), 536; EV 2/1775.

18 In relazione a LG (n. 41) e AG (n. 16) il CCE (n. 1570) dice: «Diaconi missionem et gratiam Christi, modo speciali, participant. Ordinis sacramentum eos signat sigillo (“charactere”) quod nemo delere potest et quod eos configurat Christo qui factus est “diaconus”, id est, omnium minister». A sua volta, la Ratio fundamentalis (Institutio diaconorum, nn. 5.7) collega la configurazione all’effusione dello Spirito e la specifica assimilandola alla condizione di Cristo come servo di tutti: «Diaconatus confertur per peculiarem effusionem Spiritus (ordinatio), quae in recipientis persona specificam efficit configurationem cum Christo, Domino et servo omnium (…) is [diaconus] enim, prout unici ministerii ecclesiastici particeps, est in Ecclesia specificum signum sacramentale Christi servi (…). Character diaconalis est signum configurativum-distinctivum animae modo indelebili impressum, quod sacro ordine auctos configurat Christo (…)»; EV 17/163.166.

19 La sacramentalità dell’episcopato implica che «Episcopi, eminenti ac adspectabili modo, ipsius Christi magistri, pastoris et pontificis partes sustineant et in eius persona agant»: LG 21b; EV 1/335; in altri passi, si utilizzano formule analoghe come: «Episcopi sententiam de fide et moribus nomine Christi prolatam»: LG 25a; EV 1/344; «potestas qua, nomine Christi personaliter funguntur»: LG 27a; EV 1/351; «munus in ipsius nomine et potestate docendi, sanctificandi et regendi»: AA 2b; EV 1/917; «oves suas in nomine Domini pascunt»: CD 11b; EV 1/594.

20 Nella LG (n. 10b; EV 1/312), a proposito della distinzione essenziale tra sacerdozio comune e sacerdozio ministeriale, si dice di quest’ultimo che «potestate sacra, qua gaudet, populum sacerdotalem efformat ac regit, sacrificium eucharisticum in persona Christi conficit illudque nomine totius populi Deo offert»; a sua volta, LG 28a (EV 1/354) afferma dei preti che «suum verum munus sacrum maxime exercent in eucharistico cultu vel synaxi, qua in persona Christi agentes (…) unicum sacrificium (…) repraesentant»; in modo equivalente PO 13b afferma che «praesertim in sacrificio Missae, presbyteri personam specialiter gerunt Christi»; EV 1/1288.

21 Il nesso del «in persona Christi» con l’esclusività sacerdotale per consacrare l’eucaristia è stato accentuato nei documenti postconciliari: il Sinodo del 1971 afferma che «solus sacerdos in persona Christi agere valet ad praesidendum et perficiendum sacrificale convivium»: Synodus episcoporum, documentum Ultimis temporibus de sacerdotio ministeriali, 30.11.1971: EV 4/1166; la lettera della Congregazione per la dottrina della fede Sacerdotium ministeriale del 1983 insiste affinché «munus tam grave conficiendi mysterium eucharisticum adimplere valeant [episcopi et presbyteri] (…) ut ipsi (…) non communitatis mandato, sed agant in persona Christi»: AAS 75 (1983), 1006; EV 9/390; e ciò è ricordato nel CIC del 1983: «Minister, qui in persona Christi sacramentum eucharistiae conficere valet, est solus sacerdos valide ordinatus»: can. 900, 1.

22 «Presbyteri, unctione Spiritus Sancti, speciali charactere signantur et sic Christo sacerdoti configurantur, ita ut in persona Christi capitis agere valeant»: PO 2c; EV 1/1246; l’espressione equivalente di PO 12a si muove nella stessa direzione: «(…) omnis sacerdos, suo modo, ipsius Christi personam gerat»; EV 1/1282. L’insieme del ministero presbiterale è incluso nei riferimenti di AG 39a («Presbyteri personam Christi gerunt […] in triplici sacro munere […]»; EV 1/1227) e di LG 37a («[…] illos, qui ratione sacri sui muneris personam Christi gerunt»; EV 1/382); in SC 33a, esso si concretizza nella presidenza della celebrazione eucaristica: «Immo preces a sacerdote, qui coetui in persona Christi praeest, (…) dicuntur»; EV 1/53. Documenti postconciliari: nella Evangelii nuntiandi, Paolo VI applica la formula al ministero dell’evangelizzazione: «Cum Episcopis in ministerium evangelizationis consociantur (…), ii qui per sacerdotalem ordinationem personam Christi gerunt»: EN 67; EV 5/1683; da parte sua, Giovanni Paolo II la adopera facendo riferimento al ministero specifico della riconciliazione nel sacramento della penitenza: «Sacerdos, paenitentiae minister (…) agit in persona Christi»: Reconciliatio et paenitentia, 2.12.1984, n. 29; EV 9/1173; secondo Pastores dabo vobis (1992), il prete rappresenta il Cristo capo, pastore e sposo della Chiesa: «(…) connectuntur cum “consecratione”, quae eorum propria est eosque ad Christum, Ecclesiae caput et pastorem configurat; vel cum “missione” vel ministerio presbyterorum proprio, quod eos habiles efficit et instruit ut fiant “Christi sacerdotis aeterni viva instrumenta” et ad agendum provehit “Ipsius Christi nomine et persona” (…)»: n. 20; EV 13/1255; «Presbyter, per sacramentalem hanc consecrationem, configuratur Christo Iesu quatenus capiti et pastori Ecclesiae (…)»: n. 21; EV 13/1256; «Sacerdos ergo advocatur ut sit imago vivens Iesu Christi, Ecclesiae sponsi: remanet ipse quidem semper communitatis pars (…), sed vi eiusdem configurationis ad Christum Caput et Pastorem, ipse presbyter positus est in eiusmodi relatione sponsali erga propriam communitatem»: n. 22; EV 13/1263.

23 Il CIC del 1983 applica la formula a tutto il sacramento dell’ordine e, di conseguenza, anche al diaconato: «Sacramento ordinis (…) consecrantur et deputantur ut, pro suo quisque gradu, in persona Christi capitis munera docendi, sanctificandi et regendi adimplendi, Dei populum pascant. Ordines sunt episcopatus, presbyteratus et diaconatus»:can. 1008-1009. In un intervento di Giovanni Paolo II, si trova l’idea della personificazione, ma applicata a Cristo servo: cf. infra, nota 27. Il Directorium del 1998 preferisce la formula «in nome di Cristo» a proposito del ministero eucaristico del diacono («nomine ipsius Christi, inservit ad Ecclesiam participem reddendam fructuum sacrificii sui»: Diaconatus originem, n. 28; EV 17/333) e in relazione con la diaconia della carità («Vi sacramenti ordinis diaconus […] munera pastoralia participat […] quae participatio, utpote per sacramentum peracta, efficit ut diaconi populum Dei inserviant nomine Christi»: n. 37; EV 17/348).

24 «Ab eo [Christo] episcopi et presbyteri missionem et facultatem (“sacram potestatem”) agendi in persona Christi capitis accipiunt, diaconi vero vim populo Dei serviendi in “diaconia” liturgiae, verbi et caritatis (…)»: CCE 875.

25 «Per ordinationem recipitur capacitas agendi tamquam Christi legatus, capitis Ecclesiae (…)»: CCE 1581; «(…) sacramento ordinis, cuius munus est, nomine et in persona Christi capitis, in communitate servire»: CCE 1591; «In ecclesiali ministri ordinati servitio, ipse Christus, Ecclesiae suae est praesens, quatenus caput sui corporis (…)»: CCE 1548.

26 «Per ministerium ordinatum, praesertim episcoporum et presbyterorum, praesentia Christi, tamquam capitis Ecclesiae, in communitate credentium, visibilis fit»: CCE 1549.

27 Ad esempio, la Ratio fundamentalis insiste sulla configurazione simultanea del diacono «cum Christo, Domino et servo omnium» e la considera come«specificum signum sacramentale Christi Servi»: Institutio diaconorum, n. 5; EV 17/163. A sua volta, Giovanni Paolo II ha affermato (16 marzo 1985): «Il diacono nel suo grado personifica Cristo servo del Padre, partecipando alla triplice funzione del sacramento dell’ordine», in Insegnamenti VIII/1, 649.

28 Lo stesso testo di san Policarpo, Ad Phil. 5, 2 (ed. Funk, I, 300), che la LG (n. 29a) e la Institutio diaconorum (n. 5) applicano ai diaconi, considera Cristo come Signore e servo (ministro): «Misericordes, seduli, incedentes iuxta veritatem Domini, qui omnium minister factus est».

29 A proposito dei vescovi, la LG 24a dichiara: «Munus autem illud, quod Dominus pastoribus populi sui commisit, verum est servitium quod in sacris Litteris diakonia seu ministerium significanter nuncupatur (cf. At 1,17.25; 21,19; Rm 11,13; 1Tm 1,12)»: EV 1/342.

30Cf. Pastores dabo vobis, n. 21: «Christus est Ecclesiae caput, sui scilicet corporis. “Caput” est eo modo quidem novo et sibi proprio modo, “servum” scilicet significandi, prout ab Ipsius verbis evincitur (Mc 10,45) (…). Quod servitium seu “ministerium” plenitudinem sui attigit per mortem in cruce acceptam, id est per totale sui donum, in humilitate et amore (Ph 2,7-8) (…). Auctoritas autem Christi Iesu capitis eadem est ac Ipsius servitium, donum, totalis deditio, humilis atque dilectionis plena, erga Ecclesiam. Idque in perfecta erga Patrem obedientia. Ille enim, unicus verusque est afflictus et dolens Domini Servus, idemque sacerdos et hostia seu victima»: EV 13/1258.

31 Il CCE (n. 876) afferma: «Intrinsece coniuncta naturae sacramentali ministerii ecclesialis est eius indoles servitii. Ministri etenim, prorsus dependentes a Christo qui missionem praebet et auctoritatem, vere sunt “servi Christi” ad imaginem Christi qui libere propter nos “formam servi” (Ph 2,7) accepit. Quia verbum et gratia quorum sunt ministri, eorum non sunt, sed Christi qui illa eis pro aliis concredidit, ipsi libere omnium fient servi».

32 «Iuvat enim viros, qui ministerio vere diaconali fungantur (…) per impositionem manuum inde ab Apostolis traditam corroborari et altari arctius coniungi, ut ministerium suum per gratiam sacramentalem diaconatus efficacius expleant»: AG 16f: EV 1/1140.

33 Il Vaticano II non usa l’espressione «potestas iurisdictionis» e soltanto in PO (n. 2b; EV 1/1245) parla di «sacra ordinis potestas». Tuttavia, nella Nota explicativa (n. 2; EV 1/450) della LG afferma a proposito della consacrazione episcopale: «In consecratione datur ontologica participatio sacrorum munerum, ut indubie constat ex traditione, etiam liturgica. Consulto adhibetur vocabulum munerum, non vero potestatum, quia haec ultima vox de potestate ad actum expedita intelligi posset. Ut vero talis expedita potestas habeatur, accedere debet canonica seu iuridica determinatio per auctoritatem hierarchicam. Quae determinatio potestatis consistere potest in concessione particularis officii vel in assignatione subditorum, et datur iuxta normas a suprema auctoritate adprobatas. Huiusmodi ulterior norma ex natura rei requiritur, quia agitur de muneribus quae a pluribus subiectis, hierarchice ex voluntate Christi cooperantibus, exerceri debent». Sulle diverse interpretazioni della «potestas sacra» cf. P. Krämer, Dienst und Vollmacht in der Kirche. Eine rechtstheologische Untersuchung zur Sacra Potestas-Lehre des II. Vatikanischen Konzils,Trier 1973, 38ss; A. Celeghin, Origine e natura della potestà sacra. Posizioni postconciliari, Brescia 1987.

34 Il CIC (can. 966) distingue tra «potestas ordinis» e «facultas eandem exercendi».

35 «Docet autem sancta Synodus episcopali consecratione plenitudinem conferri sacramenti ordinis, quae nimirum et liturgica Ecclesiae consuetudine et voce sanctorum patrum summum sacerdotium, sacri ministerii summa nuncupatur»: LG 21b; EV 1/335. La Relazione dottrinale comprende l’espressione in definitiva utilizzata (plenitudo sacramenti) come «totalitas omnis partes includens» (AS III/I, 238). LG (n. 41b; EV 1/391) considera i vescovi come «ad imaginem summi et aeterni sacerdotis, pastoris et episcopi (…) ad plenitudinem sacerdotii electi».

36 «Presbyteri, quamvis pontificatus apicem non habeant et in exercenda sua potestate ab episcopis pendeant, cum eis tamen sacerdotali honore coniuncti sunt et vi sacramenti ordinis, ad imaginem Christi, summi atque aeterni Sacerdotis (…) consecrantur, ut veri sacerdotes Novi Testamenti. Muneris unici mediatoris Christi (1Tm 2,5) participes in suo gradu ministerii (…) Presbyteris, ordinis episcopalis providi cooperatores eiusque adiutorium (…)»: LG 28: EV 1/354.

37 Cf. molti riferimenti in L. Ott, Das Weihesakrament (HbDG IV/5), Freiburg 1969. Il concilio di Trento (cf. DS 1763-1778) parla di «sacramento dell’ordine» partendo dal presupposto della sua unità, come nel caso del battesimo e della confermazione (cf. DS 1767).

38 «Sic ministerium ecclesiasticum divinitus institutum diversis ordinibus exercetur ab illis qui iam ab antiquo episcopi, presbyteri, diaconi vocantur»: LG 28a; EV 1/354.

39 Cf. STh, III, Suppl. q37 a2 Resp.: «(…) distinctio ordinis est accipienda secundum relationem ad eucharistiam. Quia potestas ordinis aut est ad consecrationem eucharistiae ipsius, aut ad aliquod ministerium ordinandum ad hoc. Si primo modo, sic est ordo sacerdotum (…)».

40 Cf. LG 10b: «sacerdotium ministeriale seu hierarchicum»; EV 1/312; il CCE pone sotto il titolo di «Hierarchica Ecclesiae constitutio» la dottrina sul ministero ecclesiale che espone nei nn. 874-896.

41 «In gradu inferiori hierarchiae sistunt diaconi»: LG 29a; EV 1/359. Con la soppressione degli altri gradi a partire da Ministeria quaedam (1972), il diaconato diventa di fatto l’ultimo grado.

42 Nel Directorium (Diaconatus originem, n. 8; EV 17/296) si parla esplicitamente di «partecipazione» al ministero episcopale: «Fundamentum obligationis consistit in ipsa participatione ministerii episcopalis, quae per sacramentum ordinis et missionem canonicam confertur». Più avanti (n. 11) si mette in guardia contro la possibile privazione della «relatio directa et immediata, quam quilibet diaconus cum proprio episcopo habere debet»; EV 17/301.

43Cf. M. Andrieu, «La carrière ecclésiastique des papes et les documents liturgiques du Moyen-Âge», in Rev. Sc. Rel. 21 (1947), 90-120.

44 A proposito della relazione con i vescovi, la Institutio diaconorum (1998), n. 8, parla di «dipendenza» nell’esercizio della funzione; a proposito della relazione con i preti, parla di una relazione «speciale»: «Diaconi, cum ecclesiasticum ministerium in inferiore gradu participent, in sua potestate exercenda necessario ex episcopis pendent prout plenitudinem sacramenti habentibus. Praeterea, necessitudinem peculiarem cum presbyteris ineunt, quippe in communione quorum ad populum Dei serviendum sunt vocati»; EV 17/167.

45 «(…) [Diaconi] populo Dei, in communione cum episcopo eiusque presbyterio, inserviunt»: LG 29a; EV 1/359. Il motu proprio Sacrum diaconatus ordinem (n. 23; EV 2/1393), che applica le decisioni conciliari, pone l’accento sulla sottomissione all’autorità del vescovo e del prete: «Quae omnia munera in perfecta cum episcopo eiusque presbyterio communione exsequenda sunt, videlicet sub auctoritate episcopi et presbyteri, qui eo loci fidelium curae praesunt». Nel Caeremoniale episcoporum… (Typ. Pol. Vat. 1985, n. 24) si dice a proposito dei diaconi: «Spiritus Sancti dono roborati, episcopo eiusque presbyterio adiumentum praestant in ministerio verbi, altaris et caritatis».

46 I diaconi non possono essere membri del consiglio presbiterale (cf. LG 28; EV 1/354ss; CD 27; EV 1/642ss; PO 7; EV 1/1264ss; CIC, can. 495, 1). Ciò è confermato dal Directorium: «Nequeunt tamen esse membra consilii presbyteralis, quia ipsum exclusive presbyterium repraesentat»: Diaconatus originem, n. 42; EV 17/362.

47 Il Directorium del 1998 (Diaconatus originem, n. 6; EV 17/291) ricorda la «fraternità sacramentale» che unisce i diaconi, l’importanza dei vincoli di carità, della preghiera, dell’unità, della cooperazione, l’opportunità di incontri comuni, ma non dice nulla su un possibile «ordo diaconorum» collegiale e mette in guardia contro i rischi di «corporativismo» che in passato contribuirono alla scomparsa del diaconato permanente: «Diaconi, vi ordinis accepti, fraternitate sacramentali inter se uniti sunt (…). Praestat ut diaconi, consentiente episcopo et ipso episcopo praesente aut eius delegato, statutis temporibus congregentur (…). Ad episcopum loci spectat diaconos in dioecesi operantes spiritum communionis alere, evitando ne ille “corporativismus” efformetur, qui praeteritis saeculis tantopere ad diaconatum permanentem evanescendum influxit».

48 «Specifica vocatio diaconi permanentis stabilitatem in hoc ordine supponit. Fortuitus igitur transitus ad presbyteratum diaconorum permanentium, non uxoratorum vel viduorum, rarissima exceptio semper erit, quae admitti non poterit, nisi graves et speciales rationes id suadeant»: Diaconatus originem, n. 5; EV 17/290.

49 La LG (n. 29a) rinvia alle Constitutiones Ecclesiae aegyptiacae, III, 2 (ed. Funk, Didaskalia II, 103); Statuta Eccl. ant. 37-41 (Mansi 3, 954; ma in realtà si tratta di Stat. Eccl. ant. 4 [Mansi 3, 951]). Il testo degli Statuta 92 (4) (CChr SL 148, 181) dice: «Diaconus cum ordinatur, solus episcopus, qui eum benedicit, manum super caput illius ponat, quia non ad sacerdotium, sed ad ministerium consecratur».

50 Cf. Pontificale romano-germanico (950), vol. 1, Città del Vaticano 1963, 24. Nell’attuale Pontificale romanum (ed. typ. 1968, 1989), si trovano le espressioni seguenti: «La missione del diacono è un aiuto per il vescovo e per i suoi preti (episcopo eiusque presbyterio adiumentum) nel servizio della parola, dell’altare e della carità» (allocuzione di apertura del vescovo); il diacono è ordinato «al servizio della Chiesa (ad ministerium Ecclesiae)» e «per fornire un aiuto all’ordine sacerdotale (in adiutorium ordinis sacerdotalis)» (interrogatorio del vescovo agli ordinati). Nella preghiera di consacrazione si ricorda che gli apostoli «hanno scelto sette uomini che li aiutassero nel servizio quotidiano». Si noterà che per il presbitero, la domanda posta è se «vuole diventare presbitero, collaboratore dei vescovi nel sacerdozio, per servire e guidare il popolo di Dio sotto la guida dello Spirito Santo».

51 La versione latina (L) dice: «In diacono ordinando solus episcopus imponat manus, propterea quia non in sacerdotio ordinatur, sed in ministerio episcopi, ut faciat ea quae ab ipso iubentur»: Trad. apost., ed. B. Botte (SCh 11bis), Paris 1968, 58.

52 Anche l’interpretazione data dalla Commissione conciliare è controversa: «Verba desumuntur ex Statutis Eccl. ant. (…) et significant diaconos non ad corpus et sanguinem Domini offerendum, sed ad servitium caritatis in Ecclesia ordinari»: AS III/8, 101.

53 «Et utique sacramentum nemo potest conficere, nisi sacerdos, qui rite fuerit ordinatus (…)»: Concilio Lateranense IV (1215): DS 802; cf. Trad. apost., 4.

54 «Forma sacerdotii talis est: “Accipe potestatem offerendi sacrificium in Ecclesia pro vivis et mortuis” (…)»: Concilio di Firenze (1439): DS 1326.

55 Concilio di Trento (1563): DS 1771; cf. ugualmente ivi, 1764: «(…) Apostolis eorumque successoribus in sacerdotio potestatem traditam consecrandi, offerendi et ministrandi corpus et sanguinem eius, nec non et peccata dimittendi et retinendi (…)».

56 «(…) distinctio ordinis est accipienda secundum relationem ad Eucharistiam. Quia potestas ordinis aut est ad consecrationem eucharistiae ipsius, aut ad aliquod ministerium ordinandum ad hoc. Si primo modo, sic est ordo sacerdotum. Et ideo, cum ordinatur, accipiunt calicem cum vino et patenam cum pane, potestatem accipientes consecrandi corpus et sanguinem Christi»: STh III, Suppl. q37 a2 resp.

57 «(…) episcopatus non est ordo, secundum quod ordo est quoddam sacramentum (…) ordinatur omnis ordo ad eucharistiae sacramentum; unde, cum episcopus non habeat potestatem superiorem sacerdote quantum ad hoc, non erit episcopatus ordo»: Tommaso d’Aquino, In IV Sent. d24 q3 a2, sol. II.

58 LG 11a; EV 1/313. L’affermazione del valore centrale dell’eucaristia ritorna a più riprese: cf. PO 5b («in sanctissima […] eucharistia totum bonum spirituale Ecclesiae continetur»; EV 1/1253), UR 15a («celebrationem eucharisticam, fontem vitae ecclesiae et pignus futurae gloriae»; EV 1/547), CD 30f («ut celebratio eucharistici sacrificii centrum sit et culmen totius vitae communitatis christianae»; EV 1/657).

59 «Sacerdos quidem ministerialis, potestate sacra qua gaudet, populum sacerdotalem efformat ac regit, sacrificium eucharisticum in persona Christi conficit illudque nomine totius populi Dei offert (…)»: LG 10b; EV 1/312.

60 Cf. SC 35d (ministro competente, espressione che include anche i diaconi; EV 1/59); LG 20c (adiutoribus […] diaconis; EV 1/333); LG 28a (ministerium ecclesiasticum […] diaconi; EV 1/354); LG 29a (ad ministerium; EV 1/359); LG 41d (ministri, imprimis diaconi; EV 1/393); OE 17 (institutum diaconatus; EV 1/478); CD 15a (diaconi, qui ad ministerium ordinati; EV 1/605); DV 25a (clericos omnes […] qui ut diaconi; EV 1/908); AG 15i (munera […] diaconorum; EV 1/1134); AG 16f (salutis ministros in ordine […] diaconorum […] ordo diaconatus; EV 1/1140).

61 «Doctrina catholica, in liturgia, magisterio et constanti Ecclesiae explicita praxi, agnoscit duos gradus participationis ministerialis exsistere sacerdotii Christi: episcopatum et presbyteratum. Diaconatum ad illos adiuvandos atque ad illis serviendum destinatur. Propterea verbum sacerdos designat, in usu odierno, episcopos et presbyteros, sed non diaconos. Tamen doctrina catholica docet gradus participationis sacerdotalis (episcopatum et presbyteratum) et gradum servitii (diaconatum) conferri, hos omnes tres, actu sacramentali qui “ordinatio” appellatur, id est, sacramento ordinis»: CCE 1554. La Ratio fundamentalis (Institutio diaconorum, nn. 4.5; EV 17/162s) evita anche la terminologia sacerdotale applicata al diacono: «(…) ad eius (cuiusque ministri ordinati) plenam veritatem pertinet esse participatio specifica et repraesentatio ministerii Christi (…) manuum impositio diaconum non est “ad sacerdotium sed ad ministerium”, id est non ad celebrationem eucharisticam sed ad servitium (…) is [diaconus] enim, prout unici ministerii ecclesiastici particeps, est in Ecclesia specificum signum sacramentale Christi servi».

62 «Sacerdotium autem commune fidelium et sacerdotium ministeriale seu hierarchicum, licet essentia et non gradu tantum differant, ad invicem tamen ordinantur; unum enim et alterum suo peculiari modo de uno Christi sacerdotio participant»: LG 10b; EV 1/312.

63 «Missionis autem et gratiae supremi Sacerdotis peculiari modo participes sunt inferioris quoque ordinis ministri, imprimis diaconi (…)»: LG 41d; EV 1/393. In riferimento a questo testo, il CCE (n. 1570) sostituisce l’espressione «supremo Sacerdote» con «Cristo»: «Diaconi missionem et gratiam Christi, modo speciali participant».

64 «Sacramento ordinis ex divina institutione inter christifideles quidam charactere indelebili quo signantur, constituuntur sacri ministri, qui nempe consecrantur et deputantur ut, pro suo quisque gradu, in persona Christi capitis munera docendi, sanctificandi et regendi adimplentes, Dei populum pascant»: can. 1008. «Ordines sunt episcopatus, presbyteratus et diaconatus»: can. 1009. Nel linguaggio del CIC del 1983 si privilegia l’espressione «sacri ministri» per designare i battezzati che hanno ricevuto un’ordinazione sacramentale. Da una parte, le sue espressioni sono più laconiche di quelle del Vaticano II e non citano LG 29; d’altra parte, nonostante la restrizione «pro suo gradu», esso va al di là dei testi espliciti del Vaticano II quando si tratta di applicare la nozione «in persona Christi capitis» al diaconato.

65 Cf. i dati del capitolo VI.

66 Cf., ad esempio, Tertulliano, De exh. cast. 7, 5: CCh SL 319, 94, dove vescovi, preti e diaconi costituiscono l’«ordo sacerdotalis» o «sacerdotium»; Leone I, Ep. 12, 5; 14, 3s: PL 54, 652, 672s, che aggiunge anche i suddiaconi in quanto membri dell’«ordo sacerdotalis»; Optato di Milevi, Contra Parmen. I, 13: SCh 412, 200, per il quale i diaconi fanno parte del «terzo sacerdozio» («Quid diaconos in tertio, quid presbyteros in secundo sacerdotio constitutos?»); anche san Girolamo, Ep. 48, 21: CSEL 54, 387: «Episcopi, presbyteri, diaconi aut virgines eliguntur aut vidui aut certe post sacerdotium in aeternum pudici».

67 Cf. Concilio di Trento: DS 1764.

68 Cf. sopra, nota 51.

69 Lo stesso CCE (n. 569), che cita la formula della Traditio come la LG (n. 29), pone in risalto il fatto che soltanto il vescovo impone le mani al diacono al momento dell’ordinazione come segno di un vincolo speciale con lui: «Pro diacono ordinando, solus episcopus manus imponit, ita significans diaconum in muneribus suae “diaconiae” episcopo speciatim annecti».

70 «(…) episcopos, qui munus ministerii sui vario gradu, variis subiectis in ecclesia legitime tradiderunt»: LG 28; EV 1/354.

71 «Gratia enim sacramentali roborati, in diaconia liturgiae, verbi et caritatis populo Dei, in communione cum episcopo eiusque presbyterio, inserviunt»: LG 29; EV 1/359. Da parte sua, il Directorium (Diaconatus originem, n. 22; EV 17/319) parla di un aiuto ai «vescovi» e ai «preti»: «Sic diaconus auxiliatur et inservit episcopis et presbyteris, qui sempre praesunt liturgiae, previgilant super doctrinam et moderantur populum Dei».

72 «In questo testo antico, il “ministero” viene precisato come “servizio del vescovo”; il Concilio pone l’accento sul servizio del popolo di Dio»: Giovanni Paolo II, Insegnamenti XVI/II, 1000.

73 «Inter varia illa ministeria quae inde a primis temporibus in Ecclesia exercentur, teste traditione, praecipuum locum tenet munus illorum qui, in episcopatum constituti, per successionem ab initio recurrentem, apostolici seminis traduces habent (…). Proinde docet sacra Synodus episcopos ex divina institutione in locum Apostolorum successisse, tamquam Ecclesiae pastores (…)»: LG 20; EV 1/332; «Episcopi, utpote Apostolorum successores, a Domino (…) missionem accipiunt (…)»: LG 24a; EV 1/342. Nello stesso senso, cf. DS 1768, 3061; CCE 1555.

74 «Christus, quem Pater sanctificavit et misit in mundum (Io 10,36), consecrationis missionisque suae per Apostolos suos, eorum successores, videlicet episcopos participes effecit, qui munus ministerii sui, vario gradu, variis subiectis in Ecclesia legitime tradiderunt. Sic ministerium ecclesiasticum divinitus institutum diversis ordinibus exercetur ab illis qui iam ab antiquo episcopi, presbyteri, diaconi vocantur»: LG 28a; EV 354.

75 «Ordo est sacramentum per quod missio a Christo ipsius apostolis concredita exerceri pergit in Ecclesia usque ad finem temporum: est igitur ministerii apostolici sacramentum. Tres implicat gradus: episcopatum, presbyteratum et diaconatum»: CCE1536.

76 Cf. anche l’espressione «sacerdozio ministeriale o gerarchico» di LG 10b; EV 1/312.

77 «Apostolis eorumque successoribus a Christo collatum est munus in ipsius nomine et potestate docendi, sanctificandi et regendi»: AA 2b; EV 1/917; cf. LG 19a; EV 1/330.

78 «Munus autem illud, quod Dominus pastoribus populi sui commisit, verum est servitium quod in sacris Litteris diakonia seu ministerium significanter nuncupatur»: LG 24a; EV 1/342.

79 Cf. Concilio di Trento: DS 1764 («[…] Apostolis eorumque successoribus in sacerdotio potestatem traditam consecrandi […]»); ivi, 1771 («[…] sacerdotium visibile et externum […]»; ivi, 1765 («[…] tam sancti sacerdotii ministerium […] ministrorum ordines, qui sacerdotio ex officio deservirent […]»); ivi, 1772 («[…] alios ordines, et maiores et minores, per quos velut per gradus quosdam in sacerdotium tendatur […]»).

80Cf. LG 29a; EV 1/359.

81 Ad esempio, mons. P. Yü Pin riteneva che i diaconi permanenti potessero esercitare una funzione «pontis seu mediationis inter hierarchiam et christifideles» (in AS II/II, 431); allo stesso modo, la Commissione conciliare accolse l’idea che i diaconi sposati possano costituire «quasi pontem» tra il clero e il popolo (in AS III/I, 267).

82 «Concilium denique Vaticanum II optatis et precibus suffragatum est, ut Diaconatus permanens, ubi id animarum bono conduceret, instauretur veluti medius ordo inter superiores ecclesiasticae hierarchiae gradus et reliquum populum Dei, quasi interpres necessitatum ac votorum christianorum communitatum, instimulator famulatus seu diaconiae Ecclesiae apud locales christianas communitates, signum vel sacramentum ipsius Christi Domini, qui non venit ministrari, sed ministrare»: Paolo VI, Ad pascendum: AAS 54 (1972), 536; EV 2/1775.

83 «Per receptum diaconatum aliquis fit clericus et incardinatur Ecclesiae particulari vel Prelaturae personali pro cuius servitio promotus est»: CIC, can. 266; cf. anche cann. 1008-1009, ai quali fa eco il Directorium del 1998, n. 1: «Per impositionem manuum et consecrationis precem ipse minister sacer et hierarchiae membrum constituitur. Haec conditio ipsius statum theologicum et iuridicum in Ecclesia determinat»; EV 17/284.

84 Cf. Trad. apost. 4, 8, 21, 24 (funzione di ponte tra il vescovo e il popolo cristiano); STh III q82 a3 ad1 («diaconi sunt inter sacerdotes et populum»).

85 Così, possono essere sposati (can. 281, 3), non sono obbligati a indossare un abito ecclesiastico (can. 284), né ad astenersi dall’assumere cariche pubbliche in ambito civile (can. 285, 3) o dall’amministrare beni secolari (can. 285, 4); possono dedicarsi agli affari e al commercio (can. 286) e partecipare attivamente ai partiti politici e alle associazioni sindacali (can. 287, 2; cf. can. 288). A tale proposito cf. le precisazioni fornite dal Directorium, nn. 7-14; EV 17/293-09.

86 Ad esempio: capacità di esercitare il potere di governo o di giurisdizione a motivo dell’ordine sacro (can. 129); ottenere incarichi il cui esercizio richiede il potere di ordine o di governo (can. 274, 1), benché non possano essere vicari generali né episcopali (can. 475); i diaconi possono essere nominati giudici diocesani (can. 1421, 1) e anche giudice unico (can. 1425, 4); possono anche concedere alcune dispense (can. 89; can. 1079, 2), o assistere come facoltà generale ai matrimoni (can. 1111 s); sono ministri ordinari del battesimo (can. 861, 1), della comunione (can. 910, 1) e dell’esposizione eucaristica (can. 943); possono predicare dappertutto (can. 764) e l’omelia è riservata a loro come ai preti (can. 767, 1).

87Cf. Zukunft aus der Kraft des Konzils. Die ausser-ordentliche Bischofssynode 1985, Freiburg, 1986; W. Kasper, «Kirche als Communio», in Id., Theologie und Kirche, Mainz 1987, I, 272-289.

88 «In diaconia liturgiae, verbi et caritatis populo Dei (…) inserviunt (…) fidelium cultui et orationi praesidere (…) caritatis et administrationis officiis dediti (…)»: LG 29a; EV 1/359. La Commissione conciliare chiarisce in questi termini: «Indicantur officia diaconorum in primis modo generali, brevi sed gravi sententia, in triplici campo, scilicet “in diaconia liturgiae, verbi et caritatis”: quod deinde magis specificatur per “caritatis et administrationis officia”»: AS III/I, 260. L’accento posto sulla dimensione caritativa appare anche nella spiegazione data dalla stessa Commissione a proposito della formula «non ad sacerdotium, sed ad ministerium»: «Significant diaconos non ad corpus et sanguinem Domini offerentes, sed ad servitium caritatis in Ecclesia ordinari»: AS III/8, 101.

89 «Iuvat enim viros, qui ministerio vere diaconali fungantur, vel verbum divinum tamquam catechistae praedicantes, vel nomine parochi et episcopi dissitas communitates christianas moderantes, vel caritatem exercentes in operibus socialibus seu caritativis, per impositionem manuum inde ab Apostolis traditam corroborari et altari arctius coniungi, ut ministerium suum per gratiam sacramentalem diaconatus efficacius expleant»: AG 16f; EV 1/1140.

90 «Ubi sacerdos deest, Ecclesiae nomine matrimoniis celebrandis assistere et benedicere ex delegatione episcopi vel parochi (…) funeris ac sepulturae ritibus praeesse (…) praesidere, ubi sacerdos non adest (…) caritatis et administrationis officiis atque socialis subsidii operibus, hierarchiae nomine, perfungi (…) apostolica laicorum opera fovere et adiuvare»: Sacrum diaconatus ordinem, n. 22; AAS 59 (1967), 701s; EV 2/1392.

91 Sui compiti attribuiti e sui problemi che solleva il can. 517, 2, cf. sopra capitolo IV, note 50-51.

92 Quando parla dei diaconi, dice semplicemente: «Ad diaconos pertinet, inter alia, episcopo et presbyteris in mysteriorum divinorum celebratione assistere, maxime eucharistiae, eamque distribuere, matrimonio assistere idque benedicere, Evangelium proclamare et praedicare, exsequiis praesidere atque se diversis caritatis consecrare servitiis»: CCE 1570. Quando fa allusione esplicita al diaconato permanente, citando AG (n. 16), riafferma la convenienza e l’utilità di ordinare sacramentalmente «viros qui in Ecclesia ministerium vere diaconale explent sive in vita liturgica et pastorali sive in operibus socialibus et caritativis»: CCE 1571.

93 «Ad munus docendi (…) quidem elucet ex libri Evangelii traditione, in ipso ordinationis ritu praescripta. Diaconi munus sanctificandi impletur (…) quo pacto apparet quomodo ministerium diaconale ex eucharistia procedat ad eandemque redeat, nec in mero servitio sociali exhauriri possit. Munus regendi denique exercetur per deditionem operibus caritatis (…) peculiari habito ad caritatem, quae praeeminentem diaconalis ministerii notam constituit»: Institutio diaconorum, n. 9; EV 17/170ss.

94 «Diaconi proprium officium est Evangelium proclamare et Verbum Dei praedicare (…) quae facultas oritur e sacramento (…). Ministerio episcopi et, subordinate, ministerio presbyterorum, diaconus praestat auxilium sacramentale, ac proinde intrinsecum, organicum, a confusione alienum (…). Opera caritatis, dioecesana vel paroecialia, quae sunt inter primaria officia episcopi et presbyterorum, ab his transmittuntur, secundum testimonium traditionis Ecclesiae, servis ministerii ecclesiastici, hoc est diaconis (…)»: Directorium, nn. 24, 28, 37; EV 17/323.332ss.348.

95 Ad esempio: «Itaque diaconatus in Ecclesia mirabiliter effloruit simulque insigne praebuit testimonium amoris erga Christum ac fratres in caritatis operibus exsequendis, in ritibus sacris celebrandis atque in pastoralibus perfungendis muneribus»: Paolo VI, Ad pascendum; AAS 64 (1972), 535; EV 4/1774.

96 Cf. sopra, note 21, 53, 54.

97 Cf. sopra, nota 55.

98 In modo succinto la LG (n. 21b; EV 1/335) nota: «Episcoporum est per sacramentum ordinis novos electos in corpus episcopale assumere».

99 Ad esempio: «Minister ordinarius sacrae communionis est episcopus, presbyter et diaconus. Extraordinarius sacrae communionis minister est acolythus necnon alius christifidelis ad normam can. 203, 3 deputatus»: CIC, can. 910.

100«Confirmationis minister ordinarius est episcopus; valide hoc sacramentum confert presbyter quoque hac facultate vi iuris communis aut peculiaris concessionis competentis auctoritatis instructus»: CIC, can. 882.

101 Se la LG (n. 26c; EV 1/350) considera i vescovi come «dispensatores sacrorum ordinum», il CIC (can. 1012) afferma che «sacrae ordinationis minister est episcopus consecratus»; cf. nello stesso senso DS 1326 e 1777. Tuttavia, il problema sollevato da alcuni documenti pontifici che sembrano concedere a un prete la facoltà di conferire il diaconato (cf. DS 1435) e anche il presbiterato (cf. DS 1145, 1146, 1290) non sembra sia stato risolto dottrinalmente.

102 La stessa Ratio fundamentalis (Institutio diaconorum, n. 9; EV 17/169) afferma: «Ministerium diaconale distinctum est exercitio trium munerum, ministerio ordinato propriorum, in specifica luce diaconiae».

 

 

Conclusione

1 Constitutio apostolica Sacramentum ordinis, artt. 4-5: DS 3857-3861. Sull’imposizione delle mani e sulla preghiera di consacrazione cf. pure Gregorio IX, Ep. Presbyter et diaconus ad episc. Olaf de Lund:DS 826; cf. 1326.

2 Paolo VI, Ministeria quaedam, 15.8.1972: AAS 64 (1972), 531; EV 4/1749ss.

3 Id., Sacrum diaconatus ordinem: AAS 59 (1967), 698; EV 2/1368ss.

4 È stato comunicato alla Commissione teologica internazionale che esiste ora un progetto di revisione di questo canone che mira a distinguere i ministeri sacerdotali dal ministero diaconale.

5Cf. P. Erdö, «Der ständige Diakon. Theologisch-systematische und rechtliche Erwägungen», in AkathKR 166 (1997), 79-80.

6 Ignazio di Antiochia, Ad Trall. 3, 1: SCh 10bis, 96.