Documento per il Sinodo Minore

Documento dei diaconi permanenti della diocesi di Milano per il Sinodo minore “Chiesa dalle genti”

 

I diaconi permanenti ambrosiani si sono ritrovati a discutere il tema del Sinodo minore in due modalità.  A livello territoriale, nei mesi di febbraio-marzo i diaconi si sono ritrovati nelle diverse zone pastorali insieme con i rispettivi Vicari di zona; in una seconda forma, i diaconi si sono riuniti in assemblea nel Seminario di Venegono Inferiore nella giornata di domenica 4 marzo, nella quale sono ritornati sull’argomento sinodale prima dividendosi per aree di impegno pastorale (parrocchia/catechesi/liturgia/famiglia; pastorale della salute e della carità; ambito della scuola/educazione/cultura), anche con la presenza delle mogli dei diaconi sposati, e poi facendo sintesi in assemblea, nella quale hanno anche ascoltato gli interventi di don Mario Antonelli, membro dell’Équipe di Formazione al Diaconato permanente e collaboratore degli Uffici per la Pastorale dei Migranti e per la Pastorale Missionaria, del diacono Roberto Pagani, responsabile del Servizio diocesano per l’Ecumenismo e il Dialogo e membro della Commissione di coordinamento del Sinodo minore, e di Carmen Sanchez Rosario, moglie del diacono Felix Juarez, membro del Consiglio Pastorale della Parrocchia personale dei migranti e della Commissione di coordinamento del Sinodo minore come rappresentante della comunità di fedeli dell’America latina.
Offriamo alla Commissione sinodale questa sintesi che rispecchia le posizioni maggiormente condivise all’interno del corpo diaconale, cercando di mantenere però – per quanto è possibile – la pluralità delle esperienze e delle valutazioni, il che comporta il permanere di qualche contraddizione e dissonanza.

 

  1. Valutazioni generali sul tema e sul Sinodo

Il tema sul quale l’Arcivescovo ci chiama a riflettere nel Sinodo minore riguarda una realtà di cui abbiamo ancora scarsa conoscenza e che difficilmente riesce a mettere in discussione le comunità cristiane della diocesi. Ci accorgiamo di essere ancora indietro su questa tematica, forse ci stiamo muovendo solo ora, la stessa “pastorale dei migranti” ha costituito sinora una realtà marginale.

Siamo una Chiesa preparata ad aiutare gli immigrati, ma non a cambiare a partire dalla loro presenza: corriamo il rischio di perdere un’occasione, vedendo questo tema come un problema da risolvere, mentre invece è un kairòs.

Conosciamo il rischio di interpretare il tema pensando all’immigrazione in generale, a quella islamica in particolare. Allo stesso modo, abbiamo ben presente il rischio della deriva sociologica: in realtà comprendiamo che il Sinodo non riguarda i migranti in quanto tali, è invece un Sinodo sulla Chiesa, che si rilegge a partire dalla presenza nelle nostre terre ambrosiane dei migranti cattolici; l’aspettativa dell’Arcivescovo – così ci pare – è che cambi lo stile della Chiesa, in considerazione del fatto che riforma e missionarietà coincidono.

Avvertiamo anche la difficoltà determinata dai tempi un po’ troppo ristretti concessi per la riflessione. Inoltre registriamo il disagio dei sacerdoti e delle comunità cristiane, le quali stanno ancora metabolizzando la visita pastorale del cardinale Scola e si vedono subito interpellate su un altro argomento impegnativo.

Tuttavia, ci rendiamo conto che non è possibile spostare più in là questo tema e rimandare una questione che è già di tutti i giorni: quella che ad alcuni non sembrava all’inizio una problematica urgente, si è rivelata infatti una questione di identità, che ci costringe a capire chi siamo e chi vogliamo essere, lasciandoci interrogare dalla diversità dell’altro, che provvidenzialmente è qui. Comprendiamo di essere di fronte alla provocazione a pensare una “Chiesa dalle genti”, non una “Chiesa delle genti”, dove il soggetto di riflessione è, appunto, la Chiesa.

Un primo risultato ottenuto, in ogni caso, è che ci si è confrontati, accorgendosi della questione e valorizzando le buone pratiche già esistenti. Da questo primo esame emerge che siamo di fronte a un fenomeno articolato, che non si può affrontare in maniera monolitica: il rapporto con le diverse comunità etniche cattoliche e inoltre con le altre comunità cristiane è senza dubbio diverso e non va indebitamente semplificato.

 

  1. Il Sinodo come opportunità: come ci interroga il fenomeno dei migranti cattolici e di altre confessioni cristiane

Crediamo che il senso del Sinodo sia nell’“attirerò tutti a me” di Gesù: il punto fondamentale è che la nostra Chiesa è per tutti, la paura dovrebbe essere quella di non vedersi attirati dalla croce di Gesù insieme a tutti i nostri fratelli. In questo senso, siamo chiamati a contemplare l’opera che lo Spirito va compiendo nelle nostre terre: siamo chiamati ad una lettura profetica, uscendo dai condizionamenti che ci ostacolano, anche se bisogna mettere in conto tempi lunghi. Eravamo abituati alla Chiesa che si muove “ad gentes”, ora abbiamo invece già qui una “Chiesa dalle genti”; ma non dobbiamo dimenticare che non sono le genti a formare la Chiesa, ma Gesù Cristo.

Ci sentiamo fortemente provocati a verificare il modo in cui guardiamo al fenomeno della presenza di cristiani stranieri, se cioè ci aiuta ad uscire da noi stessi e a modificare il volto della comunità cristiana oppure se lo consideriamo come un fatto esterno che guardiamo senza lasciarci interrogare. Occorrerebbe rileggere l’esperienza di Pietro negli Atti degli Apostoli, in particolare il discorso in casa di Cornelio (At 10,34ss.): comprendere i cambiamenti culturali in atto, sarà un lavoro che servirà alle nostre comunità per aprirsi.

Questa realtà integra la domanda su come possiamo essere, secondo l’invito di papa Francesco, Chiesa “in uscita”; è un’opportunità per testimoniare, per dare ragione della nostra fede. È un’occasione per ritrovare la nostra identità missionaria: non si tratta di rinunciare a qualcosa di noi stessi per essere più accoglienti, ma di capire che la nostra identità è dialogica, emerge dallo scambio, dall’interazione con chi è diverso da noi.

È un tema, ancora, che ci interroga sulla nostra capacità di comunicare: il cardinale Martini osservava nella Lettera pastorale “Effatà, apriti” che spesso la radice dell’incomunicabilità è nella comunicazione per eccesso, nella voglia di comunicare troppo e troppo in fretta, semplificando così l’istanza comunicativa.

Siamo stimolati a ripensarci come Chiesa, recuperando la centralità dell’Eucaristia che costituisce e manifesta la comunità: stiamo diventando una Chiesa che dà servizi, dobbiamo recuperare il servizio della comunità in quanto tale.

Qualche diacono sospetta che questi gruppi di cristiani di altre nazionalità siano già pronti a dare il loro contributo alla costruzione di un volto nuovo di Chiesa e forse non trovano i canali per farlo giungere a noi: forse non ce ne accorgiamo, ma siamo già oltre il “noi” e il “loro”.

Affrontare il tema del Sinodo minore ha costituito per qualche comunità cristiana un invito a verificare se essa sia davvero “un cuore solo e un’anima sola attorno a Gesù”: ci si è accorti che già all’interno della stessa comunità autoctona non si è “integrati”, non si è veramente una famiglia.

Esiste una reciprocità nel cambiamento, tra autoctoni e migranti, che è inevitabile. Ma cosa ci stanno insegnando i cristiani provenienti da altre nazioni e culture? Alcuni diaconi, osservando il modo discreto con cui queste persone entrano nelle nostre assemblee e nelle nostre chiese, affermano che esse ci insegnano il rispetto; altri hanno ricevuto da badanti cristiane ortodosse l’osservazione critica secondo la quale noi abbiamo perso il senso della domenica, lavorando sempre, e non viviamo più forme penitenziali come il digiuno.

Altri osservano come molti di noi siano (stati) migranti e attraverso questa esperienza abbiamo capito l’importanza dell’esercizio della memoria, del fatto che ci siamo messi in viaggio per cercare qualcosa di meglio: unico punto di riferimento all’inizio è stata la parrocchia, la comunità cristiana è stata importante nell’esperienza dell’essere migranti e noi dovremmo riuscire a comunicare ad altri la forza di questa percezione.

 

  1. Difficoltà e resistenze

Riconosciamo che attorno a questa realtà ci sono molte paure. Ve ne sono soprattutto là dove si conosce di meno il fenomeno dei migranti, perché il pregiudizio e la paura sono figli dell’ignoranza. C’è fastidio, perché sembra che in giro ci siano solo stranieri, si ha paura di chi è diverso, ma qualche volta siamo anche convinti che noi, i milanesi, gli ambrosiani, siamo migliori.

C’è la paura di perdere la propria identità, di perdere posizioni e benefici economici, paura di mettere in discussione modelli di comportamento radicati e indiscutibili; si ha paura che i migranti vengano a portare via la nostra cultura, ma forse dovremmo guardare a come si è formata la nostra cultura: siamo il frutto di continui processi di migrazione, di qui sono passati tutti.

Vi è l’idea che dobbiamo farci carico delle problematiche che questi migranti si portano dietro, la fuga dalle guerre e dal disagio economico, la mancanza di lavoro e le problematiche di sopravvivenza: ci disturba l’idea che l’accoglienza nelle nostre comunità ci costringa a farci carico del disagio economico di queste persone.

Il confronto con la presenza dei migranti ci fa percepire più chiaramente le chiusure all’interno delle nostre stesse comunità: in certe zone della nostra diocesi vi sono divisioni non solo tra paesi ma tra frazioni all’interno dello stesso paese. E se noi siamo chiusi, l’“altro” non entra. Facciamo fatica ad accoglierci all’interno delle stesse Comunità pastorali.

Le resistenze al messaggio del Sinodo emergono a volte già all’interno del Consiglio pastorale. Vi sono pregiudizi anche nei confronti di sacerdoti stranieri, qualcuno viene identificato come il “negretto”, c’è diffidenza, anche se questo prete parla benissimo l’italiano. Probabilmente non siamo ancora preparati a questo.

Ci sarebbero opportunità di apertura e accoglienza, ma noi siamo abituati a lavorare a blocchi, abbiamo equilibri delicati che non vogliamo toccare, sensibilità che non vogliamo urtare. Forse la vera paura è quella di cambiare, di costruire una comunità nuova che non faccia sentire nessuno straniero. Qualche volta ci sentiamo noi un po’ stranieri in mezzo a tanta gente proveniente da tante parti del mondo e che parla lingue diverse, e allora proviamo anche noi un po’ di paura: questo però ci aiuta a immaginare come si sentono gli stranieri nelle nostre comunità. Ci rendiamo conto che sussistono paure anche in chi arriva da noi, che noi dovremmo conoscere e aiutare a sciogliere.

Siamo convinti che le paure vanno decodificate, occorre rompere alcuni meccanismi che ci bloccano, le paure vanno prese così come sono ma occorre formare le persone, i credenti ad avere una giusta percezione delle cose. Dobbiamo scegliere di non nascondere le paure, ma di affrontarle e interpretarle, senza enfatizzarle; in ognuna delle schede preparate per la discussione nei diversi gruppi e realtà pastorali c’è l’accenno alle paure, ma non è prioritario, viene sempre verso la fine e il tema viene affrontato con un criterio obiettivo.

Non riscontriamo solo paure, vi sono altre difficoltà che si radunano attorno al tema del Sinodo minore. Per esempio, comprendiamo il rischio di vedere questi migranti solo come “gente da aiutare”, persone di cui deve occuparsi la Caritas; non vi sono scambi di esperienze, si fa fatica a realizzare e raccontare confronti nelle condizioni ordinarie della vita; si affrontano problemi concreti più che coltivare interesse per la loro fede, la presenza dei cristiani migranti è vista più come un problema che come un’opportunità. Vi sono cattolici di diverse nazionalità che svolgono funzioni nelle nostre parrocchie, come quella di sacrestano, ma non sono presenti alla catechesi, nelle commissioni parrocchiali e pastorali. Ci sono cristiani stranieri della cui esistenza ci si rende conto solo quando essi chiedono i sacramenti o la catechesi, ma ordinariamente la comunità cristiana nei loro confronti è assente. Spesso però si tratta di persone che hanno una mobilità molto alta, che si spostano continuamente alla ricerca di un lavoro.

Registriamo anche difficoltà di comprensione della realtà delle cappellanie di cattolici stranieri: talvolta sembra che i gruppi di stranieri tendano a ghettizzarsi o comunque a far comunità tra loro, pur parlando la lingua italiana e mandando i figli nelle scuole italiane. Secondo qualcuno le cappellanie dei migranti andrebbero ridefinite, non dovrebbero funzionare come vere e proprie parrocchie. Alcuni diaconi fanno fatica a capire che senso abbia che, terminata la Messa festiva ordinaria della comunità cristiana, inizi per esempio la celebrazione dei cattolici filippini. Su questo punto però abbiamo ascoltato l’ammonizione a non replicare l’universalismo illuminista del “siamo tutti uguali, siamo tutti fratelli”: sono le differenze che vanno salvaguardate e valorizzate e non mitigate a causa della carica di inquietudine che ci procurano, se l’alterità viene smarrita si rischia di sciupare il dono dello Spirito. In questa prospettiva, le cappellanie potrebbero diventare un valore: la differenza dell’altro è il dono di Dio che attendo.

Vengono segnalate anche una serie di problematiche che osserviamo all’interno dei gruppi stessi di cristiani di altre nazioni. A volte ci accorgiamo che gli stessi stranieri sono stranieri tra loro; vi sono contrasti tra gruppi nazionali all’interno delle stesse comunità di stranieri, per es. tra i latinoamericani; anche le comunità etniche vivono momenti di crisi al loro interno.

Nella discussione, è emerso anche il confronto con l’esperienza dell’immigrazione dal sud dell’Italia, vissuta nei decenni passati dalle nostre regioni. Per quanto alcuni diaconi siano scettici sulla reale possibilità che il fenomeno migratorio interno al nostro Paese degli anni ’50 e ’60 possa davvero costituire un’utile chiave di comprensione dell’attuale presenza di cristiani di altre nazionalità, si fa notare che, quando arrivarono i siciliani e i napoletani, la Chiesa di Milano non è che si sia molto adattata, è andata avanti col suo ambrosianesimo; qualcuno vede questo fatto in senso positivo, altri fanno notare come in realtà abbiamo tentato di far diventare ambrosiane tutte queste persone, senza che noi cambiassimo nulla, fieri della nostra ambrosianità. Difficoltà si sono avute e forse in qualche caso ci sono ancora quando ci si accorge che gli italiani del Sud hanno un modo di celebrare la fede diverso rispetto a noi ambrosiani.

 

  1. Educarsi all’accoglienza e promuovere l’integrazione: celebrare la fede, ascoltare

Nel nostro confronto è emerso con forza il tema dell’accoglienza: la prima domanda che dovremmo avere il coraggio di porre ai nuovi venuti dovrebbe essere: “da dove arrivi?”, “chi sei?”.

La liturgia è indicata da molti come il luogo da cui può partire l’accoglienza. Ma occorre rieducarsi al linguaggio dell’accoglienza, nelle nostre comunità si affacciano persone di altre etnie che mostrano riservatezza e titubanza, si mettono in fondo nelle chiese e nessuno li invita a venire avanti. Le nostre liturgie andrebbero migliorate e rese più ospitali a queste persone, perché si sentano maggiormente a casa propria: si potrebbe arricchire per es. la liturgia con canti di altre culture, eseguiti da cristiani di altre nazioni, si potrebbe pensare a letture fatte da stranieri nella loro lingua, come già succede in qualche occasione. Qualcuno fa notare come i latinoamericani siano più emotivi e faticano a riconoscersi nella nostra liturgia.

Andrebbe rinnovato il linguaggio, lo stile comunicativo, dovremmo utilizzare di più l’inglese o altre lingue straniere; forse un certo modo di essere cattolici deve morire, come il seme, perché possiamo portare frutto. La testimonianza di Carmen Sanchez Juarez ci ha ricordato come il desiderio suo e di suo marito Felix di vivere la loro fede cattolica nella nostra diocesi si è scontrato nei primi tempi con la barriera linguistica, la fatica di comprendere le omelie e di conversare con le persone, ma più ancora con una certa indifferenza dei cristiani autoctoni, tanto da sperimentare all’interno della comunità cristiana la sensazione di essere invisibili. La comunità latinoamericana li ha aiutati nel passaggio alla nuova realtà, finché ad un certo punto un sacerdote della parrocchia ha chiesto loro di proclamare le letture nella liturgia, li ha coinvolti e li ha fatti sentire non più invisibili.

Alcuni diaconi hanno portato l’esperienza di segni di accoglienza nelle celebrazioni liturgiche riscontrati all’estero (per es. Gran Bretagna, Irlanda) e che noi non pratichiamo: saluto personale, accompagnamento all’ingresso nella chiesa, consegna di sussidi per seguire la celebrazione, consegna del bollettino parrocchiale. Altri hanno osservato che per non perdere la semplicità e spontaneità dell’approccio personale non si dovrebbe esagerare con i gesti di accoglienza: occorre guardarsi dal rischio di normare l’attenzione all’altro e di creare figure e funzioni artificiali o atteggiamenti standard inevitabilmente a rischio di falsità.

Sono stati fatti diversi tentativi nella linea dell’integrazione, qualche parrocchia ha discusso la possibilità di far entrare rappresentanti delle comunità cattoliche o comunque cristiane di altre nazioni nel Consiglio Pastorale, ma poi non se ne è fatto nulla. Qualche risultato si è ottenuto coinvolgendo i bambini nell’animazione liturgica, sono state realizzate cene multietniche, con piatti di diverse tradizioni gustati insieme; in una parrocchia alcuni cristiani nigeriani hanno insegnato la lingua inglese ai bambini.

Ma più radicalmente, sembra importante curare il rapporto tra identità, assimilazione e integrazione tra culture: occorre anche uno sforzo, un desiderio da parte degli stranieri che arrivano qui, ma si deve d’altro lato rispettare da parte nostra la loro paura di essere assorbiti o risucchiati dalla cultura locale. Occorre creare le condizioni perché i migranti possano sentirsi liberi di esprimersi senza essere schiacciati; il desiderio di incontro, di relazione umana e anche di preghiera permette di superare barriere linguistiche e differenze nel modo di vivere la fede. Dovremmo fondamen­talmente riconoscere che l’altro è un valore, per cui anche noi possiamo imparare qualcosa, la direzione non può essere solo unilaterale, cioè noi che facciamo qualcosa per loro.

Dovremmo avere il desiderio di conoscere la religiosità di queste persone straniere, il loro modo di essere credenti, più in generale sembrano necessari luoghi visibili in cui i cattolici migranti possano “contaminare” il nostro modo di credere, per esempio l’ascolto della Parola. Forse in passato abbiamo pensato immediatamente alle cose da fare, ora ci accorgiamo che bisogna anzitutto ascoltare. Abbiamo bisogno di spazi di racconto reciproco.

Abbiamo ascoltato l’invito ad assecondare l’opera dello Spirito, ad uscire dalla logica che si accontenta di incorporare presenze folkloristiche nella nostra tradizione, come se si trattasse semplicemente dello sforzo da parte di una comunità maggioritaria di interpellare presenze minoritarie che rimangono satellitari, per raccogliere invece la sfida di una autentica cattolicità, dove la parola “integrazione” ha senso solo se intesa come vera reciprocità.

 

  1. Luoghi di integrazione e prassi positive

Abbiamo identificato alcuni “luoghi” che l’esperienza ha mostrato utili almeno per la conoscenza e l’incontro con la realtà dei cristiani di altre nazionalità presenti nel territorio delle nostre comunità cristiane.

Anzitutto, le visite per le benedizioni natalizie permettono di entrare nelle case dei cristiani stranieri e spesso di percepire una fede intensa e molto zelo, molta voglia di pregare.

Gli oratori sono pieni di ragazzi figli di migranti, le comunità cristiane dovrebbero essere più coraggiose, più profetiche, comportarsi come i “giusti delle nazioni”, cioè prendere le difese di tutti coloro che subiscono ingiustizia o qualsiasi forma di violenza. Con i bambini e i ragazzi in genere le relazioni sono facili, immediate: molti ritengono che si debba partire dai ragazzi e dalle loro famiglie, anche in relazione a positive esperienze estive.

Nella scuola cominciano ad esserci non solo alunni, ma anche insegnanti immigrati dall’estero: il professore di religione è spesso richiesto per un’attività di mediazione.

Il cammino del catecumenato si presenta come occasione di conoscere cattolici di altre nazionalità e provenienze culturali: come nell’episodio di Mt 17,24-27 la tentazione è di vedere il pesce ma non la moneta che porta in bocca, cioè il tesoro che queste persone portano con sé, il contributo che possono dare alla nostra conversione.

Anche nella preparazione ai battesimi si può trovare un terreno fertile dove tentare di fare qualcosa; ci si domanda se in questo ambito e in generale nel contesto della catechesi non si possano individuare educatori stranieri in grado di fare da ponte con i loro connazionali.

L’ambito Caritas, per es. le scuole di italiano, offre occasioni da sfruttare: anche qui, si potrebbe pensare di coinvolgere cattolici stranieri, magari integrandoli negli sportelli dei Centri d’ascolto.

Così pure nei corsi fidanzati è possibile trovare un ambito in cui creare rapporti, mentre l’affido famigliare è un modo con cui si può entrare in contatto con bambini e famiglie di altre confessioni cristiane, con il loro modo di pregare, di vivere un diverso rapporto con la parola di Dio: conoscere le persone è diverso che aver a che fare con i numeri e le statistiche che talvolta sono scoraggianti. Per altri, il matrimonio di uomini delle nostre terre con donne sudamericane offre una buona opportunità di integrazione: queste famiglie andrebbero maggiormente conosciute e coinvolte a livello pastorale.

La Comunione agli ammalati è spesso un’occasione di incontro con le badanti ortodosse, le quali partecipano alla preghiera e confidano la loro ricerca di fede.

Qualcuno osserva che i santuari, nella specie il Santuario di Seveso, intitolato a S. Pietro Martire e ora anche ai Nuovi Martiri, si presterebbero come luoghi adatti a sperimentazioni o a fare da collettori di iniziative di coinvolgimento di stranieri o ecumeniche.

 

Un’esperienza particolare e paradigmatica

Chiudiamo offrendo il racconto di un’esperienza particolare che può funzionare da interessante apologo per comprendere meglio i dinamismi presenti nelle nostre comunità cristiane e le lacune che esse presentano sul piano di una autentica integrazione con chi arriva da lontano. In un paese della Brianza è arrivato alcuni anni fa un gruppo di cristiani nigeriani, i quali si dicevano “evangelici”: essi venivano sostenuti dagli aiuti Caritas ma non hanno mai ricevuto un invito esplicito a partecipare alla vita della parrocchia. In particolare una coppia, pur essendo sinceramente credente e attenta al valore morale delle azioni, è stata invitata dal diacono alla Messa festiva, ma non ha continuato a causa dell’eccessiva differenza di culto e per l’estraneità che avvertivano. Dopo un anno circa hanno aderito al culto dei Testimoni di Geova, dove hanno trovato sussidi per la preghiera in inglese e punti di contatto teologici “facili”, leggi morali immediate e rivelazioni di verità bibliche semplificate, in cui hanno ritrovato qualche elemento della loro spiritualità originaria; nella comunità dei Testimoni di Geova potevano intervenire nelle riunioni, le quali hanno di solito un momento conviviale, e il loro intervento veniva tradotto simultaneamente se poco comprensibile, hanno anche trovato un “catechista” di riferimento che sapeva spiegare loro la Bibbia in inglese; infine, in quella comunità hanno ricevuto aiuto nella vita ordinaria. Non conoscevano i Testimoni di Geova in Africa, ma per loro quella appartenenza andava bene e pensavano che Dio avrebbe capito che di meglio non erano riusciti a fare. Eppure erano ospitati da una famiglia cattolica, avevano trovato lavoro grazie all’impegno del diacono, ricevevano i vestiti dalla Caritas…ma sono andati dai Testimoni di Geova che li hanno riconosciuti come credenti al loro pari. Il diacono si chiede che cosa non abbia funzionato, osserva che noi abbiamo pochi luoghi dove un laico adulto faccia catechesi e si confronti con la Parola, in compenso abbiamo molte Messe, ma questo non ha funzionato.

Al netto del giudizio che si può dare dell’atteggiamento dei Testimoni di Geova, nel quale non è difficile individuare tratti di un proselitismo interessato, viene da chiedersi come mai la comunità cattolica non si sia dotata di forme agili di accoglienza, che, oltre a fornire l’aiuto materiale, vengano incontro alla domanda di relazioni personali, di amicizia, di convivialità, di senso di appartenenza. Tutto questo senza dubbio è contenuto nelle forme consuete del ritrovarsi della comunità cristiana, tuttavia pare difficile esprimerlo in modalità agili e capaci di intercettare la ricerca di chi non è già inserito nelle dinamiche consuete della comunità stessa.

6 aprile 2018