Diaconi ordinati per servire la PAROLA

Nello scorso anno ci sono state celebrazioni per ricordare cinquant’anni dalle prime ordinazioni di diaconi permanenti, un traguardo senza dubbio importante nella storia recente della Chiesa cattolica, ma diciamolo subito, senza tentennamenti: importante per ringraziare il Signore che chiama e attende risposte nella Chiesa corrispondenti al suo impegno nel mondo, ma non importante per celebrazioni fine a se stesse, quasi autocelebrazioni. Sono certo che lo Spirito, come diceva il card. Martini, arriva prima di noi e meglio di noi, garanzia di serena autocritica, ma il pericolo, meglio la tentazione è sempre possibile e la memoria deve essere un antidoto, capace di farci cogliere ciò che non va per porvi rimedio. Non posso fare a meno di accogliere con riconoscenza l’invito, che spesso, proprio alle ordinazioni, il nostro attuale arcivescovo ci rivolge: non lasciatevi prendere dalla moda e dal gusto di far festa ai vari anniversari, così da non perdere di vista ciò che è fondamentale e da non cercare  delle gratificazioni non utili al ministero nella sua verità e concretezza. E’ umano cercare una soddisfazione al proprio operato, ma evangelicamente non possiamo seguire tale strada, perché il Signore Gesù dice a tutti, in modo speciale a chi è servo per definizione: “Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”. (Lc 17,10)

Allora la Parola del Vangelo sconfessa la parola umana, in questo caso il desiderio di sentire approvato quanto si fa? No, il Vangelo non solo non è disumano, ma vuole elevare l’umano al meglio, anzi all’ottimo. E qual è l’ottimo? E’ il servizio disinteressato, il servizio senza secondi fini, il servizio fatto solo per la gloria di Dio, che, come dice sant’Ireneo, è l’uomo vivente. Noi (non sono uno psicologo, ma prendo atto dell’esperienza), quando facciamo qualcosa e non miriamo al minimo, ci diamo da fare e desideriamo vederne il risultato, così da sentirci soddisfatti. Forse mettiamo l’apice del servizio nel fare tante cose, per sentirci appagati e, senza dirlo apertamente, gratificati da chi ci sta intorno e ci vede operare. Ebbene, questo è un pericolo che sicuramente corriamo, ma, quando ce ne accorgiamo, se ascoltiamo i suggerimenti diretti o indiretti dello Spirito, dobbiamo, senza spaventarci, correre ai ripari. E come possiamo intervenire? Uno solo è il mezzo efficace: leggere, ascoltare nel profondo e lasciare agire la Parola. Nella Lettera agli Ebrei (4,12) abbiamo una definizione quanto mai chiara e realistica La parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, delle giunture e delle midolla e scruta i sentimenti e i pensieri del cuore. Nella Parola non possiamo e soprattutto non dobbiamo cercare, quasi a priori, una conferma al nostro modo di pensare e di agire. Ognuno si trova ad avere un pensiero, che si è venuto formando nella concretezza della propria famiglia e dell’ambiente sociale: in esso c’è sicuramente in parte l’eco della Parola, eco ereditata dai familiari e dalla comunità di appartenenza, ma nel contempo c’è l’eco della saggezza popolare meno aperta all’altro e di idee, che nella storia hanno combattuto la Parola e l’hanno considerata rinunciataria o rassegnata. La storia ci presenta tante situazioni in cui la Parola è stata usata ai propri fini fino a farle perdere la sua fisionomia, tuttavia dobbiamo considerare una tentazione considerare la Parola contraria alla felicità e alla vera realizzazione di ogni essere umano. La Parola è il nostro vero tesoro, forte in sè, ma affidato a noi “in vasi di creta”, come dice l’Apostolo ai Corinzi, pertanto ci è chiesto, proprio grazie all’ordinazione, di servire la Parola, di lasciarci ammaestrare come discepoli obbedienti e sinceri. La Parola si può servire in vari modi: gli anni di formazione sono il momento dello studio, in cui presi per mano dagli esperti biblisti impariamo a leggere oltre le righe e incominciamo a comprendere il messaggio. Noi diaconi non siamo chiamati ad essere degli specialisti, ma neanche dei conoscitori improvvisati e approssimativi: lo studio deve essere serio e approfondito, accompagnato dalla preghiera fatta sul testo col metodo della lectio, cui si accompagnano la meditatio, la contemplatio e l’actio. Ormai tale “esercizio” è diffuso e apprezzato; noi ambrosiani abbiamo avuto la fortuna e l’opportunità di avere un maestro straordinario nella persona dell’arcivescovo Martini. Ventidue anni di servizio episcopale hanno lasciato un segno indelebile e a quasi otto anni dal ritorno alla casa del Padre, ci rendiamo sempre più conto di quanto il suo magistero, umile e chiaro ad un tempo, sia stato e rimanga un autentico dono dello Spirito. A tutti certo e a noi diaconi, che lo stesso ha voluto rivedere nella Chiesa Ambrosiana, ha insegnato a mettere la Parola a fondamento di ogni servizio, garanzia di discernimento nel non sempre chiaro panorama delle scelte. Proprio noi, diaconi ambrosiani, corriamo il pericolo dell’attivismo insieme ai nostri fratelli e sorelle, eredi di una tradizione, bella e ricca, ma bisognosa di verifica come ogni esperienza umana. Ecco come può e deve aiutarci servire la Parola, nello studio e nell’approfondimento continuo anche dopo l’ordinazione, nel farne soggetto di preghiera e nell’umile riconoscimento del suo primato. La conversione di ognuno di noi, che non si esaurisce nel volgere di un giorno o di una folgorazione, ma che deve essere quotidiana, ha come insostituibile e sicuro pungolo la Parola, “Servire la quale è regnare”.

Diacono Andrea Spinelli

 

 

Articolo pubblicato sul n.220 gennaio/febbraio 2020 de “Il diaconato in Italia”