Lumen Gentium

CONCILIO ECUMENICO VATICANO II

COSTITUZIONE DOGMATICA SULLA CHIESA

LUMEN GENTIUM

21 novembre 1964

Lumen Gentium

 

 

 

 

CAPITOLO III

COSTITUZIONE GERARCHICA DELLA CHIESAE IN PARTICOLARE DELL’EPISCOPATO

Proemio

  1. Cristo Signore, per pascere e sempre più accrescere il popolo di Dio, ha stabilito nella sua Chiesa vari ministeri, che tendono al bene di tutto il corpo. I ministri infatti che sono rivestiti di sacra potestà, servono i loro fratelli, perché tutti coloro che appartengono al popolo di Dio, e perciò hanno una vera dignità cristiana, tendano liberamente e ordinatamente allo stesso fine e arrivino alla salvezza. Questo santo Sinodo, sull’esempio del Concilio Vaticano primo, insegna e dichiara che Gesù Cristo, pastore eterno, ha edificato la santa Chiesa e ha mandato gli apostoli, come egli stesso era stato mandato dal Padre (cfr. Gv 20,21), e ha voluto che i loro successori, cioè i vescovi, fossero nella sua Chiesa pastori fino alla fine dei secoli. Affinché poi lo stesso episcopato fosse uno e indiviso, prepose agli altri apostoli il beato Pietro e in lui stabilì il principio e il fondamento perpetuo e visibile dell’unità di fede e di comunione. Questa dottrina della istituzione, della perpetuità, del valore e della natura del sacro primato del romano Pontefice e del suo infallibile magistero, il santo Concilio la propone di nuovo a tutti i fedeli come oggetto certo di fede. Di più proseguendo nel disegno incominciato, ha stabilito di enunciare ed esplicitare la dottrina sui vescovi, successori degli apostoli, i quali col successore di Pietro, vicario di Cristo e capo visibile di tutta la Chiesa, reggono la casa del Dio vivente.

L’istituzione dei dodici

  1. Il Signore Gesù, dopo aver pregato il Padre, chiamò a sé quelli che egli volle, e ne costituì dodici perché stessero con lui e per mandarli a predicare il regno di Dio (cfr. Mc 3,13-19; Mt 10,1-42); ne fece i suoi apostoli (cfr. Lc 6,13) dando loro la forma di collegio, cioè di un gruppo stabile, del quale mise a capo Pietro, scelto di mezzo a loro (cfr. Gv 21 15-17). Li mandò prima ai figli d’Israele e poi a tutte le genti (cfr. Rm 1,16) affinché, partecipi del suo potere, rendessero tutti i popoli suoi discepoli, li santificassero e governassero (cfr. Mt 28,16-20; Mc 16,15; Lc 24,45-48), diffondendo così la Chiesa e, sotto la guida del Signore, ne fossero i ministri e i pastori, tutti i giorni sino alla fine del mondo (cfr. Mt 28,20). In questa missione furono pienamente confermati il giorno di Pentecoste (cfr. At 2,1-36) secondo la promessa del Signore: « Riceverete una forza, quella dello Spirito Santo che discenderà su di voi, e mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria, e sino alle estremità della terra » (At 1,8). Gli apostoli, quindi, predicando dovunque il Vangelo (cfr. Mc 16,20), accolto dagli uditori grazie all’azione dello Spirito Santo, radunano la Chiesa universale che il Signore ha fondato su di essi e edificato sul beato Pietro, loro capo, con Gesù Cristo stesso come pietra maestra angolare (cfr. Ap 21,14; Mt 16,18; Ef 2,20).

I vescovi, successori degli apostoli

  1. La missione divina affidata da Cristo agli apostoli durerà fino alla fine dei secoli (cfr. Mt 28,20), poiché il Vangelo che essi devono predicare è per la Chiesa il principio di tutta la sua vita in ogni tempo. Per questo gli apostoli, in questa società gerarchicamente ordinata, ebbero cura di istituire dei successori.

Infatti, non solo ebbero vari collaboratori nel ministero ma perché la missione loro affidata venisse continuata dopo la loro morte, affidarono, quasi per testamento, ai loro immediati cooperatori l’ufficio di completare e consolidare l’opera da essi incominciata raccomandando loro di attendere a tutto il gregge nel quale lo Spirito Santo li aveva posti a pascere la Chiesa di Dio (cfr. At 20,28). Perciò si scelsero di questi uomini e in seguito diedero disposizione che dopo la loro morte altri uomini subentrassero al loro posto. Fra i vari ministeri che fin dai primi tempi si esercitano nella Chiesa, secondo la testimonianza della tradizione, tiene il primo posto l’ufficio di quelli che costituiti nell’episcopato, per successione che decorre ininterrotta fin dalle origini sono i sacramenti attraverso i quali si trasmette il seme apostolico. Così, come attesta S. Ireneo, per mezzo di coloro che gli apostoli costituirono vescovi e dei loro successori fino a noi, la tradizione apostolica in tutto il mondo è manifestata e custodita.

I vescovi dunque hanno ricevuto il ministero della comunità per esercitarlo con i loro collaboratori, sacerdoti e diaconi. Presiedono in luogo di Dio al gregge di cui sono pastori quali maestri di dottrina, sacerdoti del sacro culto, ministri del governo della Chiesa. Come quindi è permanente l’ufficio dal Signore concesso singolarmente a Pietro, il primo degli apostoli, e da trasmettersi ai suoi successori, cosi è permanente l’ufficio degli apostoli di pascere la Chiesa, da esercitarsi in perpetuo dal sacro ordine dei Vescovi. Perciò il sacro Concilio insegna che i vescovi per divina istituzione sono succeduti al posto degli Apostoli quali pastori della Chiesa, e che chi li ascolta, ascolta Cristo, chi li disprezza, disprezza Cristo e colui che ha mandato Cristo (cfr. Lc 10,16).

Sacramentalità dell’episcopato

  1. Nella persona quindi dei vescovi, assistiti dai sacerdoti, è presente in mezzo ai credenti il Signore Gesù Cristo, pontefice sommo. Pur sedendo infatti alla destra di Dio Padre, egli non cessa di essere presente alla comunità dei suoi pontefici in primo luogo, per mezzo dell’eccelso loro ministero, predica la parola di Dio a tutte le genti e continuamente amministra ai credenti i sacramenti della fede; per mezzo del loro ufficio paterno (cfr. 1 Cor 4,15) integra nuove membra al suo corpo con la rigenerazione soprannaturale; e infine, con la loro sapienza e prudenza, dirige e ordina il popolo del Nuovo Testamento nella sua peregrinazione verso l’eterna beatitudine. Questi pastori, scelti a pascere il gregge del Signore, sono ministri di Cristo e dispensatori dei misteri di Dio (cfr. 1 Cor 4,1). Ad essi è stata affidata la testimonianza al Vangelo della grazia di Dio (cfr. Rm 15,16; At 20,24) e il glorioso ministero dello Spirito e della giustizia (cfr. 2 Cor 3,8-9).

Per compiere cosi grandi uffici, gli apostoli sono stati arricchiti da Cristo con una effusione speciale dello Spirito Santo disceso su loro (cfr. At 1,8; 2,4; Gv 20,22-23), ed essi stessi con la imposizione delle mani diedero questo dono spirituale ai loro collaboratori (cfr. 1 Tm 4,14; 2 Tm 1,6-7), dono che è stato trasmesso fino a noi nella consacrazione Episcopale. Il santo Concilio insegna quindi che con la consacrazione episcopale viene conferita la pienezza del sacramento dell’ordine, quella cioè che dalla consuetudine liturgica della Chiesa e dalla voce dei santi Padri viene chiamata sommo sacerdozio, realtà totale del sacro ministero. La consacrazione episcopale conferisce pure, con l’ufficio di santificare, gli uffici di insegnare e governare; questi però, per loro natura, non possono essere esercitati se non nella comunione gerarchica col capo e con le membra del collegio. Dalla tradizione infatti, quale risulta specialmente dai riti liturgici e dall’uso della Chiesa sia d’Oriente che d’Occidente, consta chiaramente che dall’imposizione delle mani e dalle parole della consacrazione è conferita la grazia dello Spirito Santo ed è impresso il sacro carattere in maniera tale che i vescovi, in modo eminente e visibile, tengono il posto dello stesso Cristo maestro, pastore e pontefice, e agiscono in sua vece. È proprio dei vescovi assumere col sacramento dell’ordine nuovi eletti nel corpo episcopale.

Il collegio dei vescovi e il suo capo

  1. Come san Pietro e gli altri apostoli costituiscono, per volontà del Signore, un unico collegio apostolico, similmente il romano Pontefice, successore di Pietro, e i vescovi, successori degli apostoli, sono uniti tra loro. Già l’antichissima disciplina, in virtù della quale i vescovi di tutto il mondo vivevano in comunione tra loro e col vescovo di Roma nel vincolo dell’unità, della carità e della pace e parimenti la convocazione dei Concili per decidere in comune di tutte le questioni più importanti mediante una decisione che l’opinione dell’insieme permetteva di equilibrare significano il carattere e la natura collegiale dell’ordine episcopale, che risulta manifestamente confermata dal fatto dei Concili ecumenici tenuti lungo i secoli. La stessa è pure suggerita dall’antico uso di convocare più vescovi per partecipare all’elevazione del nuovo eletto al ministero del sommo sacerdozio. Uno è costituito membro del corpo episcopale in virtù della consacrazione sacramentale e mediante la comunione gerarchica col capo del collegio e con le sue membra.

Il collegio o corpo episcopale non ha però autorità, se non lo si concepisce unito al Pontefice romano, successore di Pietro, quale suo capo, e senza pregiudizio per la sua potestà di primato su tutti, sia pastori che fedeli. Infatti il Romano Pontefice, in forza del suo Ufficio, cioè di Vicario di Cristo e Pastore di tutta la Chiesa, ha su questa una potestà piena, suprema e universale, che può sempre esercitare liberamente. D’altra parte, l’ordine dei vescovi, il quale succede al collegio degli apostoli nel magistero e nel governo pastorale, anzi, nel quale si perpetua il corpo apostolico, è anch’esso insieme col suo capo il romano Pontefice, e mai senza questo capo, il soggetto di una suprema e piena potestà su tutta la Chiesa sebbene tale potestà non possa essere esercitata se non col consenso del romano Pontefice. Il Signore ha posto solo Simone come pietra e clavigero della Chiesa (cfr. Mt 16,18-19), e lo ha costituito pastore di tutto il suo gregge (cfr. Gv 21,15 ss); ma l’ufficio di legare e di sciogliere, che è stato dato a Pietro (cfr. Mt 16,19), è noto essere stato pure concesso al collegio degli apostoli, congiunto col suo capo (cfr. Mt 18,18; 28,16-20). Questo collegio, in quanto composto da molti, esprime la varietà e l’universalità del popolo di Dio; in quanto poi è raccolto sotto un solo capo, significa l’unità del gregge di Cristo. In esso i vescovi, rispettando fedelmente il primato e la preminenza del loro capo, esercitano la propria potestà per il bene dei loro fedeli, anzi di tutta la Chiesa, mente lo Spirito Santo costantemente consolida la sua struttura organica e la sua concordia. La suprema potestà che questo collegio possiede su tutta la Chiesa, è esercitata in modo solenne nel Concilio ecumenico. Mai può esserci Concilio ecumenico, che come tale non sia confermato o almeno accettato dal successore di Pietro; ed è prerogativa del romano Pontefice convocare questi Concili, presiederli e confermarli. La stessa potestà collegiale insieme col papa può essere esercitata dai vescovi sparsi per il mondo, purché il capo del collegio li chiami ad agire collegialmente, o almeno approvi o liberamente accetti l’azione congiunta dei vescovi dispersi, così da risultare un vero atto collegiale.

Le relazioni all’interno del collegio episcopale

  1. L’unità collegiale appare anche nelle mutue relazioni dei singoli vescovi con Chiese particolari e con la Chiesa universale. Il romano Pontefice, quale successore di Pietro, è il perpetuo e visibile principio e fondamento dell’unità sia dei vescovi sia della moltitudine dei fedeli. I singoli vescovi, invece, sono il visibile principio e fondamento di unità nelle loro Chiese particolari queste sono formate ad immagine della Chiesa universale, ed è in esse e a partire da esse che esiste la Chiesa cattolica una e unica. Perciò i singoli vescovi rappresentano la propria Chiesa, e tutti insieme col Papa rappresentano la Chiesa universale in un vincolo di pace, di amore e di unità. I singoli vescovi, che sono preposti a Chiese particolari, esercitano il loro pastorale governo sopra la porzione del popolo di Dio che è stata loro affidata, non sopra le altre Chiese né sopra la Chiesa universale. Ma in quanto membri del collegio episcopale e legittimi successori degli apostoli, per istituzione e precetto di Cristo sono tenuti ad avere per tutta la Chiesa una sollecitudine che, sebbene non sia esercitata con atti di giurisdizione, contribuisce sommamente al bene della Chiesa universale. Tutti i vescovi, infatti, devono promuovere e difendere l’unità della fede e la disciplina comune all’insieme della Chiesa, formare i fedeli all’amore per tutto il corpo mistico di Cristo, specialmente delle membra povere, sofferenti e di quelle che sono perseguitate a causa della giustizia (cfr. Mt 5,10), e infine promuovere ogni attività comune alla Chiesa, specialmente nel procurare che la fede cresca e sorga per tutti gli uomini la luce della piena verità. Del resto è certo che, reggendo bene la propria Chiesa come una porzione della Chiesa universale, contribuiscono essi stessi efficacemente al bene di tutto il corpo mistico, che è pure il corpo delle Chiese.

La cura di annunziare il Vangelo in ogni parte della terra appartiene al corpo dei pastori, ai quali tutti, in comune, Cristo diede il mandato, imponendo un comune dovere, come già papa Celestino ricordava ai Padri del Concilio Efesino. Quindi i singoli vescovi, per quanto lo permette l’esercizio del particolare loro dovere, sono tenuti a collaborare tra di loro e col successore di Pietro, al quale in modo speciale fu affidato l’altissimo ufficio di propagare il nome cristiano. Con tutte le forze devono fornire alle missioni non solo gli operai della messe, ma anche aiuti spirituali e materiali, sia da sé direttamente, sia suscitando la fervida cooperazione dei fedeli. I vescovi, infine, in universale comunione di carità, offrano volentieri il loro fraterno aiuto alle altre Chiese, specialmente alle più vicine e più povere, seguendo in questo il venerando esempio dell’antica Chiesa.

Per divina Provvidenza è avvenuto che varie Chiese, in vari luoghi stabilite dagli apostoli e dai loro successori, durante i secoli si sono costituite in vari raggruppamenti, organicamente congiunti, i quali, salva restando l’unità della fede e l’unica costituzione divina della Chiesa universale, godono di una propria disciplina, di un proprio uso liturgico, di un proprio patrimonio teologico e spirituale. Alcune fra esse, soprattutto le antiche Chiese patriarcali, quasi matrici della fede, ne hanno generate altre a modo di figlie, colle quali restano fino ai nostri tempi legate da un più stretto vincolo di carità nella vita sacramentale e nel mutuo rispetto dei diritti e dei doveri. Questa varietà di Chiese locali tendenti all’unità dimostra con maggiore evidenza la cattolicità della Chiesa indivisa. In modo simile le Conferenze episcopali possono oggi portare un molteplice e fecondo contributo acciocché il senso di collegialità si realizzi concretamente.

Il ministero episcopale

  1. I vescovi, quali successori degli apostoli, ricevono dal Signore, cui è data ogni potestà in cielo e in terra, la missione d’insegnare a tutte le genti e di predicare il Vangelo ad ogni creatura, affinché tutti gli uomini, per mezzo della fede, del battesimo e dell’osservanza dei comandamenti, ottengano la salvezza (cfr. Mt 28,18-20; Mc 16,15-16; At 26,17 ss). Per compiere questa missione, Cristo Signore promise agli apostoli lo Spirito Santo e il giorno di Pentecoste lo mandò dal cielo, perché con la sua forza essi gli fossero testimoni fino alla estremità della terra, davanti alle nazioni e ai popoli e ai re (cfr. At 1,8; 2,1 ss; 9,15). L’ufficio poi che il Signore affidò ai pastori del suo popolo, è un vero servizio, che nella sacra Scrittura è chiamato significativamente « diaconia », cioè ministero (cfr. At 1,17 e 25; 21,19; Rm 11,13; 1 Tm 1,12).

La missione canonica dei vescovi può essere data per mezzo delle legittime consuetudini, non revocate dalla suprema e universale potestà della Chiesa, o per mezzo delle leggi fatte dalla stessa autorità o da essa riconosciute, oppure direttamente dallo stesso successore di Pietro; se questi rifiuta o nega la comunione apostolica, i vescovi non possono essere assunti all’ufficio.

La funzione d’insegnamento dei vescovi

  1. Tra i principali doveri dei vescovi eccelle la predicazione del Vangelo. I vescovi, infatti, sono gli araldi della fede che portano a Cristo nuovi discepoli; sono dottori autentici, cioè rivestiti dell’autorità di Cristo, che predicano al popolo loro affidato la fede da credere e da applicare nella pratica della vita, la illustrano alla luce dello Spirito Santo, traendo fuori dal tesoro della Rivelazione cose nuove e vecchie (cfr. Mt 13,52), la fanno fruttificare e vegliano per tenere lontano dal loro gregge gli errori che lo minacciano (cfr. 2 Tm 4,1-4) . I vescovi che insegnano in comunione col romano Pontefice devono essere da tutti ascoltati con venerazione quali testimoni della divina e cattolica verità; e i fedeli devono accettare il giudizio dal loro vescovo dato a nome di Cristo in cose di fede e morale, e dargli l’assenso religioso del loro spirito. Ma questo assenso religioso della volontà e della intelligenza lo si deve in modo particolare prestare al magistero autentico del romano Pontefice, anche quando non parla « ex cathedra ». Ciò implica che il suo supremo magistero sia accettato con riverenza, e che con sincerità si aderisca alle sue affermazioni in conformità al pensiero e in conformità alla volontà di lui manifestatasi che si possono dedurre in particolare dal carattere dei documenti, o dall’insistenza nel proporre una certa dottrina, o dalla maniera di esprimersi.

Quantunque i vescovi, presi a uno a uno, non godano della prerogativa dell’infallibilità, quando tuttavia, anche dispersi per il mondo, ma conservando il vincolo della comunione tra di loro e col successore di Pietro, si accordano per insegnare autenticamente che una dottrina concernente la fede e i costumi si impone in maniera assoluta, allora esprimono infallibilmente la dottrina di Cristo. La cosa è ancora più manifesta quando, radunati in Concilio ecumenico, sono per tutta la Chiesa dottori e giudici della fede e della morale; allora bisogna aderire alle loro definizioni con l’ossequio della fede.

Questa infallibilità, della quale il divino Redentore volle provveduta la sua Chiesa nel definire la dottrina della fede e della morale, si estende tanto, quanto il deposito della divina Rivelazione, che deve essere gelosamente custodito e fedelmente esposto. Di questa infallibilità il romano Pontefice, capo del collegio dei vescovi, fruisce in virtù del suo ufficio, quando, quale supremo pastore e dottore di tutti i fedeli che conferma nella fede i suoi fratelli (cfr. Lc 22,32), sancisce con atto definitivo una dottrina riguardante la fede e la morale. Perciò le sue definizioni giustamente sono dette irreformabili per se stesse e non in virtù del consenso della Chiesa, essendo esse pronunziate con l’assistenza dello Spirito Santo a lui promessa nella persona di san Pietro, per cui non hanno bisogno di una approvazione di altri, né ammettono appello alcuno ad altro giudizio. In effetti allora il romano Pontefice pronunzia sentenza non come persona privata, ma espone o difende la dottrina della fede cattolica quale supremo maestro della Chiesa universale, singolarmente insignito del carisma dell’infallibilità della Chiesa stessa. L’infallibilità promessa alla Chiesa risiede pure nel corpo episcopale quando esercita il supremo magistero col successore di Pietro. A queste definizioni non può mai mancare l’assenso della Chiesa, data l’azione dello stesso Spirito Santo che conserva e fa progredire nell’unità della fede tutto il gregge di Cristo.

Quando poi il romano Pontefice o il corpo dei vescovi con lui esprimono una sentenza, la emettono secondo la stessa Rivelazione, cui tutti devono attenersi e conformarsi, Rivelazione che è integralmente trasmessa per scritto o per tradizione dalla legittima successione dei vescovi e specialmente a cura dello stesso Pontefice romano, e viene nella Chiesa gelosamente conservata e fedelmente esposta sotto la luce dello Spirito di verità. Perché poi sia debitamente indagata ed enunziata in modo adatto, il romano Pontefice e i vescovi nella coscienza del loro ufficio e della gravità della cosa, prestano la loro vigile opera usando i mezzi convenienti però non ricevono alcuna nuova rivelazione pubblica come appartenente al deposito divino della fede.

La funzione di santificazione

  1. Il vescovo, insignito della pienezza del sacramento dell’ordine, è « l’economo della grazia del supremo sacerdozio» specialmente nell’eucaristia, che offre egli stesso o fa offrire e della quale la Chiesa continuamente vive e cresce. Questa Chiesa di Cristo è veramente presente nelle legittime comunità locali di fedeli, le quali, unite ai loro pastori, sono anch’esse chiamate Chiese nel Nuovo Testamento. Esse infatti sono, ciascuna nel proprio territorio, il popolo nuovo chiamato da Dio nello Spirito Santo e in una grande fiducia (cfr. 1 Ts 1,5). In esse con la predicazione del Vangelo di Cristo vengono radunati i fedeli e si celebra il mistero della Cena del Signore, « affinché per mezzo della carne e del sangue del Signore siano strettamente uniti tutti i fratelli della comunità». In ogni comunità che partecipa all’altare, sotto la sacra presidenza del Vescovo viene offerto il simbolo di quella carità e « unità del corpo mistico, senza la quale non può esserci salvezza». In queste comunità, sebbene spesso piccole e povere e disperse, è presente Cristo, per virtù del quale si costituisce la Chiesa una, santa, cattolica e apostolica. Infatti « la partecipazione del corpo e del sangue di Cristo altro non fa, se non che ci mutiamo in ciò che riceviamo ».

Ogni legittima celebrazione dell’eucaristia è diretta dal vescovo, al quale è demandato il compito di prestare e regolare il culto della religione cristiana alla divina Maestà, secondo i precetti del Signore e le leggi della Chiesa, dal suo particolare giudizio ulteriormente determinante per la propria diocesi. In questo modo i vescovi, con la preghiera e il lavoro per il popolo, in varie forme effondono abbondantemente la pienezza della santità di Cristo. Col ministero della parola comunicano la forza di Dio per la salvezza dei credenti (cfr. Rm 1,16), e con i sacramenti, dei quali con la loro autorità organizzano la regolare e fruttuosa distribuzione santificano i fedeli. Regolano l’amministrazione del battesimo, col quale è concesso partecipare al regale sacerdozio di Cristo. Sono i ministri originari della confermazione, dispensatori degli ordini sacri e moderatori della disciplina penitenziale, e con sollecitudine esortano e istruiscono le loro popolazioni, affinché nella liturgia e specialmente nel santo sacrificio della messa compiano la loro parte con fede e devozione. Devono, infine, coll’esempio della loro vita aiutare quelli a cui presiedono, serbando i loro costumi immuni da ogni male, e per quanto possono, con l’aiuto di Dio mutandoli in bene, onde possano, insieme col gregge loro affidato, giungere alla vita eterna.

La funzione di governo

  1. I vescovi reggono le Chiese particolari a loro affidate come vicari e legati di Cristo, col consiglio, la persuasione, l’esempio, ma anche con l’autorità e la sacra potestà, della quale però non si servono se non per edificare il proprio gregge nella verità e nella santità, ricordandosi che chi è più grande si deve fare come il più piccolo, e chi è il capo, come chi serve (cfr. Lc 22,26-27). Questa potestà, che personalmente esercitano in nome di Cristo, è propria, ordinaria e immediata, quantunque il suo esercizio sia in ultima istanza sottoposto alla suprema autorità della Chiesa e, entro certi limiti, in vista dell’utilità della Chiesa o dei fedeli, possa essere ristretto. In virtù di questa potestà i vescovi hanno il sacro diritto e davanti al Signore il dovere di dare leggi ai loro sudditi, di giudicare e di regolare tutto quanto appartiene al culto e all’apostolato.

Ad essi è pienamente affidato l’ufficio pastorale ossia l’abituale e quotidiana cura del loro gregge; né devono essere considerati vicari dei romani Pontefici, perché sono rivestiti di autorità propria e con tutta verità sono detti « sovrintendenti delle popolazioni » che governano. La loro potestà quindi non è annullata dalla potestà suprema e universale, ma anzi è da essa affermata, corroborata e rivendicata, poiché è lo Spirito Santo che conserva invariata la forma di governo da Cristo Signore stabilita nella sua Chiesa.

Il vescovo, mandato dal padre di famiglia a governare la sua famiglia, tenga innanzi agli occhi l’esempio del buon Pastore, che è venuto non per essere servito ma per servire (cfr. Mt 20,28; Mc 10,45) e dare la sua vita per le pecore (cfr. Gv 10,11). Preso di mezzo agli uomini e soggetto a debolezza, può benignamente compatire gli ignoranti o gli sviati (cfr. Eb 5,1-2). Non rifugga dall’ascoltare quelli che dipendono da lui, curandoli come veri figli suoi ed esortandoli a cooperare alacremente con lui. Dovendo render conto a Dio delle loro anime (cfr. Eb 13,17), abbia cura di loro con la preghiera, la predicazione e ogni opera di carità; la sua sollecitudine si estenda anche a quelli che non fanno ancor parte dell’unico gregge e li consideri come affidatigli dal Signore. Essendo egli, come l’apostolo Paolo, debitore a tutti, sia pronto ad annunziare il Vangelo a tutti (cfr. Rm 1,14-15) e ad esortare i suoi fedeli all’attività apostolica e missionaria. I fedeli poi devono aderire al vescovo come la Chiesa a Gesù Cristo e come Gesù Cristo al Padre, affinché tutte le cose siano concordi e unite e siano feconde per la gloria di Dio (cfr. 2 Cor 4,15).

I sacerdoti e i loro rapporti con Cristo, con i vescovi, con i confratelli e con il popolo cristiano

  1. Cristo, santificato e mandato nel mondo dal Padre (cfr. Gv 10,36), per mezzo degli apostoli ha reso partecipi della sua consacrazione e della sua missione i loro successori, cioè i vescovi a loro volta i vescovi hanno legittimamente affidato a vari membri della Chiesa, in vario grado, l’ufficio del loro ministero. Così il ministero ecclesiastico di istituzione divina viene esercitato in diversi ordini, da quelli che già anticamente sono chiamati vescovi, presbiteri, diaconi. I presbiteri, pur non possedendo l’apice del sacerdozio e dipendendo dai vescovi nell’esercizio della loro potestà, sono tuttavia a loro congiunti nella dignità sacerdotale e in virtù del sacramento dell’ordine ad immagine di Cristo, sommo ed eterno sacerdote (cfr. Eb 5,1-10; 7,24; 9,11-28), sono consacrati per predicare il Vangelo, essere i pastori fedeli e celebrare il culto divino, quali veri sacerdoti del Nuovo Testamento. Partecipi, nel loro grado di ministero, dell’ufficio dell’unico mediatore, che è il Cristo (cfr. 1 Tm 2,5) annunziano a tutti la parola di Dio. Esercitano il loro sacro ministero soprattutto nel culto eucaristico o sinassi, dove, agendo in persona di Cristo e proclamando il suo mistero, uniscono le preghiere dei fedeli al sacrificio del loro capo e nel sacrificio della messa rendono presente e applicano fino alla venuta del Signore (cfr. 1 Cor 11,26), l’unico sacrificio del Nuovo Testamento, quello cioè di Cristo, il quale una volta per tutte offrì se stesso al Padre quale vittima immacolata (cfr. Eb 9,11-28). Esercitano inoltre il ministero della riconciliazione e del conforto a favore dei fedeli penitenti o ammalati e portano a Dio Padre le necessità e le preghiere dei fedeli (cfr. Eb 5,1-4). Esercitando, secondo la loro parte di autorità, l’ufficio di Cristo, pastore e capo, raccolgono la famiglia di Dio, quale insieme di fratelli animati da un solo spirito, per mezzo di Cristo nello Spirito li portano al Padre e in mezzo al loro gregge lo adorano in spirito e verità (cfr. Gv 4,24). Si affaticano inoltre nella predicazione e nell’insegnamento (cfr. 1 Tm 5,17), credendo ciò che hanno letto e meditato nella legge del Signore, insegnando ciò che credono, vivendo ciò che insegnano.

I sacerdoti, saggi collaboratori dell’ordine Episcopale e suo aiuto e strumento, chiamati a servire il popolo di Dio, costituiscono col loro vescovo un solo presbiterio sebbene destinato a uffici diversi. Nelle singole comunità locali di fedeli rendono in certo modo presente il vescovo, cui sono uniti con cuore confidente e generoso, ne assumono secondo il loro grado, gli uffici e la sollecitudine e li esercitano con dedizione quotidiana. Essi, sotto l’autorità del vescovo, santificano e governano la porzione di gregge del Signore loro affidata, nella loro sede rendono visibile la Chiesa universale e portano un grande contributo all’edificazione di tutto il corpo mistico di Cristo (cfr. Ef 4,12). Sempre intenti al bene dei figli di Dio, devono mettere il loro zelo nel contribuire al lavoro pastorale di tutta la diocesi, anzi di tutta la Chiesa. In ragione di questa loro partecipazione nel sacerdozio e nel lavoro apostolico del vescovo, i sacerdoti riconoscano in lui il loro padre e gli obbediscano con rispettoso amore. Il vescovo, poi, consideri i sacerdoti, i suoi cooperatori, come figli e amici così come il Cristo chiama i suoi discepoli non servi, ma amici (cfr. Gv 15,15). Per ragione quindi dell’ordine e del ministero, tutti i sacerdoti sia diocesani che religiosi, sono associati al corpo episcopale e, secondo la loro vocazione e grazia, servono al bene di tutta la Chiesa.

In virtù della comunità di ordinazione e missione tutti i sacerdoti sono fra loro legati da un’intima fraternità, che deve spontaneamente e volentieri manifestarsi nel mutuo aiuto, spirituale e materiale, pastorale e personale, nelle riunioni e nella comunione di vita, di lavoro e di carità.

Abbiano poi cura, come padri in Cristo, dei fedeli che hanno spiritualmente generato col battesimo e l’insegnamento (cfr. 1 Cor 4,15; 1 Pt 1,23). Divenuti spontaneamente modelli del gregge (cfr. 1 Pt 5,3) presiedano e servano la loro comunità locale, in modo che questa possa degnamente esser chiamata col nome di cui è insignito l’unico popolo di Dio nella sua totalità, cioè Chiesa di Dio (cfr. 1 Cor 1,2; 2 Cor 1,1). Si ricordino che devono, con la loro quotidiana condotta e con la loro sollecitudine, presentare ai fedeli e infedeli, cattolici e non cattolici, l’immagine di un ministero veramente sacerdotale e pastorale, e rendere a tutti la testimonianza della verità e della vita; e come buoni pastori ricercare anche quelli (cfr. Lc 15,4-7) che, sebbene battezzati nella Chiesa cattolica, hanno abbandonato la pratica dei sacramenti o persino la fede.

Siccome oggigiorno l’umanità va sempre più organizzandosi in una unità civile, economica e sociale, tanto più bisogna che i sacerdoti, consociando il loro zelo e il loro lavoro sotto la guida dei vescovi e del sommo Pontefice, eliminino ogni causa di dispersione, affinché tutto il genere umano sia ricondotto all’unità della famiglia di Dio.

I diaconi

  1. In un grado inferiore della gerarchia stanno i diaconi, ai quali sono imposte le mani « non per il sacerdozio, ma per il servizio ». Infatti, sostenuti dalla grazia sacramentale, nella « diaconia » della liturgia, della predicazione e della carità servono il popolo di Dio, in comunione col vescovo e con il suo presbiterio. È ufficio del diacono, secondo le disposizioni della competente autorità, amministrare solennemente il battesimo, conservare e distribuire l’eucaristia, assistere e benedire il matrimonio in nome della Chiesa, portare il viatico ai moribondi, leggere la sacra Scrittura ai fedeli, istruire ed esortare il popolo, presiedere al culto e alla preghiera dei fedeli, amministrare i sacramentali, presiedere al rito funebre e alla sepoltura. Essendo dedicati agli uffici di carità e di assistenza, i diaconi si ricordino del monito di S. Policarpo: « Essere misericordiosi, attivi, camminare secondo la verità del Signore, il quale si è fatto servo di tutti ».

E siccome questi uffici, sommamente necessari alla vita della Chiesa, nella disciplina oggi vigente della Chiesa latina in molte regioni difficilmente possono essere esercitati, il diaconato potrà in futuro essere ristabilito come proprio e permanente grado della gerarchia. Spetterà poi alla competenza dei raggruppamenti territoriali dei vescovi, nelle loro diverse forme, di decidere, con l’approvazione dello stesso sommo Pontefice, se e dove sia opportuno che tali diaconi siano istituiti per la cura delle anime. Col consenso del romano Pontefice questo diaconato potrà essere conferito a uomini di età matura anche viventi nel matrimonio, e così pure a dei giovani idonei, per i quali però deve rimanere ferma la legge del celibato.